Da "Il grande Gatsby", regia di Baz Luhrmann (2013)

Illusoria purezza. Intervista a Lawrence Osborne

Mattia Giusto Zanon

Tra vizi, eccessi e luccichio. L'ultimo romanzo dello scrittore inglese è "una storia vera uscita dal chiacchiericcio di una festa", dice lui al Foglio. E sul revisionismo anglosassone: "Italiani, non imitateci!"

Una festa iper-chic nel bel mezzo del niente, ospiti del jet-set internazionale che arrivano in elicottero, fuochi d’artificio, palme finte, cibi sontuosi, vassoi di polveri bianche offerte con lascivia, un fotografo di costume del New York Times lì apposta per raccontare e consacrare il tutto per i posteri, come Orson Welles invitato dallo Scià a Persepoli. Una agiata coppia britannica che, raggiungendo la festa, investe per errore – uccidendolo – un giovane del posto, intento a vendere fossili sul ciglio della strada. I due che caricano il corpo sulla loro macchina come selvaggina investita, portandoselo con loro. E’ così che tutto ha inizio. Perdendosi Nella polvere è il romanzo dello scrittore Lawrence Osborne da ieri in libreria per Adelphi: tra vizi, eccessi e luccichìo, nel deserto prende vita lo scontro tra attitudini e tra culture da sempre al centro della sua opera: lo abbiamo intervistato.

 

“Tutto accade alle feste”, diceva Jane Austen: i litigi, gli amori, le tragicità. Anche in Nella polvere è questa la ricetta esplosiva?

“Le feste sono luoghi strani, ma sono anche centrali nella vita umana, specialmente per alcune classi sociali. O almeno, lo erano prima del Covid. Tutto il bisogno umano di competizione, spavalderia sessuale, ostentazione, rottura di tabù e vanità sono lì dispiegati con la massima intensità. Non sono nemmeno sicuro di quanto sia divertente tutto ciò. Come disse una volta Antonioni: ‘La vita sarebbe abbastanza sopportabile se non fosse per tutto il divertimento che dobbiamo sopportare”.

 

Come le è venuta l’idea che sta alla base del libro?

“Era una storia vera raccontatami da un amico di New York che ne aveva sentito parlare nel chiacchiericcio, magari a una festa”.

 

Anche scrittori come Ernest Hemingway avevano come lei una formazione di tipo giornalistico, come pensa che abbia influito sul suo modo di fare narrativa?

“Il giornalismo può essere un’impresa molto dannosa per uno scrittore, lo diceva sempre Cyril Connelly. Eppure può anche disciplinare la tua prosa. E la prosa della maggior parte delle persone ha bisogno di questo: disciplina”.

 

Il Foglio sta curando una collana di grandi classici, come Le avventure di Huckleberry Finn dal titolo provocatorio di “Libri proibiti”, dato che anche il grande capolavoro di Twain rischia di essere messo al bando. Cosa ne pensa di questa nuova ondata di revisionismo?

“I paesi anglosassoni stanno attraversando una delle loro periodiche quanto idiote ‘convulsioni protestanti’. E’ quasi un movimento di culto religioso, una tensione verso un’illusoria purezza puritana – gli italiani, in ogni caso, non dovrebbero commettere l’errore di imitarci o di interiorizzare le nostre strane patologie. Torneremo alla sanità mentale tra qualche anno. O forse no. Se non lo facciamo, potrete tranquillamente ignorarci”.

 

Ricordo anche che lei ha scritto una volta che Venezia e Napoli per i viaggiatori del Grand Tour erano la Bangkok e la Manila dell’Illuminismo. L’Italia è un oriente o un occidente?

“Per me non c’è nazione più occidentale dell’Italia. Emotivamente, il centro della mia civiltà è proprio il Palatino, come luogo fisico. Non riesco a vagare lì in mezzo senza rimanere sopraffatto. Quel posto significa più per me che una qualsiasi altra parte del mio stesso paese”.
 

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