L'intervista della domenica

Un mondo nel cuore

Simonetta Sciandivasci

La mediazione, la radicalità, la poesia, i diritti di tutti, le femministe irregolari, le parole, la caduta degli oggetti, il pop, i punkabbestia, gli avversari. Conversazione con Luigi Manconi 

 

Ho sempre creduto che Luigi Manconi fosse un ottimista. Filantropo, prima d’ogni cosa, e ottimista. Come avrebbe potuto, altrimenti, dedicarsi per tutta la vita ai diritti civili? Così pensavo e, naturalmente, se non sbagliavo, di certo semplificavo. Scrive nel suo ultimo libro, “Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un pococredente” (Einaudi Stile Libero): “Trovo estremamente affascinante la formula pessimismo della speranza, elaborata da Jacques Ellul nel libro “La speranza dimenticata”. La speranza, scriveva, non ha nulla a che fare con l’ottimismo, perché non è per nulla una sorta di compensazione, di contrappeso del pessimismo”. La speranza alla quale dice di “accordare una certa fiducia” è l’attività politica che è tale “anche quando si sviluppa fuori sia dagli organismi partitici sia dagli ambiti istituzionali e si misura su atti destinati a limitare situazioni di ingiustizia o stati di sofferenza”.

Manconi ha fatto il critico musicale; il professore universitario di sociologia dei fenomeni politici; il parlamentare (per dodici anni) di Verdi e PD; il direttore di riviste d’intervento; il militante di Lotta Continua; lo scrittore; l’editorialista; il marito; il papà.

Gli siedo davanti nel suo studio, con i soffitti alti quasi tre metri in un sottoscala luminoso come un attico. È circondato da libri, cd, dischi e un paio di miniature di banchi del mercato, di quelle da presepe fisso. Mi scuso per il ritardo, le valigie, l’ingombro: arrivo da una mattinata di treni sbagliati. Dico: sembro una punkabbestia. Dice: nemmeno per sogno, lei è una donna d’ordine, conformista e ubbidente. Dico: insomma. Mi racconta di un suo amico che, anni fa ad Alghero, si trovò, da amministratore, a dover sistemare una comunità di punkabbestia di modo che ricevessero un’accoglienza degna senza che i cittadini ne fossero disturbati. Aveva cioè provato a “dare un posto al disordine, che è uno dei tentativi massimi che in occidente un politico riformatore può tentare. Nelle società contemporanee si trova un posto per ogni anomalia, ma qualcuno o qualcosa che si sottrae a questa strategia c’è sempre: il punkabbestia si sottrae”. E io che volevo soltanto scusarmi per la maglietta stropicciata.

Facciamo un giro tra gli scaffali, noto un libro di Stefano Cappellini sul Settantasette, “Rose e pistole”, e lui mi dice di aprirlo e guardare le foto. Ride. Capisco che devo cercarlo, ma non lo trovo, allora mi dice di leggere le didascalie, e allora lo vedo, vestito di tutto punto, mentre si allontana da una frangia di studenti che si preparano allo scontro e va verso i poliziotti che hanno già i lacrimogeni pronti.

 

Era bellissimo.

È bellissima la foto. Mi ritrae perfettamente. Coglie chi credo di essere sempre stato: un mediatore. Un lobbista delle istanze radicali extraistituzionali: ho dedicato buona parte della mia vita a portarle dentro le istituzioni. Se viene da me un cannibale, io gli dico: mi dia tempo, è possibile trovare una soluzione.

 

Lo converte all’insalata?

No, gli dico che nella sua cella gli saranno serviti pasti di carne animale, incontrerà educatori e psicologi e qualche bravo psichiatra, sconterà la giusta pena e sarà affidato ai servizi sociali. 

 

La facevo un radicale.

Lo sono. Però, ho anche sempre pensato che il mio ruolo nella politica, un ruolo che so benissimo non essere centrale nella vita pubblica, fosse portare le istanze radicali al governo. Per farlo è necessario essere convinti, e io lo sono, che non esiste qualcosa che possa rimanere ai margini del consesso civile, del sistema dei diritti di cittadinanza, delle relazioni politiche istituzionali. La questione dell’eutanasia, l’abolizione del carcere e purtroppo ora anche il soccorso in mare, che da prima legge dell’umanità è diventata istanza contestata, vanno portate dentro il sistema politico, dove debbono essere mediate e negoziate facendo sì che conservino il rimando al senso stretto della radicalità: andare alla radice delle cose.

 

Perché dice che abolire il male è un progetto distopico?

Perché sottovaluta il fatto che il male non è esterno: è dentro di noi. Per questo, dobbiamo trovare il modo di tenerlo dentro l’organizzazione della città, dandogli un posto. Ogni estromissione non può che rivelarsi una soluzione velleitaria e poi autoritaria, che riproduce all’infinito le manifestazioni del male stesso.

 

Il male cambia a seconda del tempo in cui si vive?

C’è un tipo di male che contravviene la norma e quindi appare come trasgressione o devianza, disubbidienza e dissenso, e poiché questo processo è del tutto erratico, si tratta di un male che cambia di volta in volta perché l’ordine rispetto a cui costituisce disordine può cambiare, con il tempo e con i regimi giuridico–politici. Esiste poi un male che ha una sua durata nel tempo e attiene ai diritti fondamentali che, pur essendo condizionati dalle organizzazioni sociali e dalle norme dominanti, trascendono il tempo. Nella nostra civiltà giuridica esiste una costanza nella definizione del male e quindi nella sua riprovazione morale e sociale: è acquisito che la violazione dei diritti fondamentali delle persone e della vita umana sono male. In altre parti del mondo, questi due assoluti sono relativi. In sostanza, la mia concezione morale mi fa dire che il male non ha alcun vincolo di fissità ed è per sua natura mobile, transitorio, mutevole e soprattutto diffuso. Per questo gli esseri umani sono un impasto di bene e male, una combinazione vertiginosa di miseria e nobiltà. Mi rendo conto che è una banalità, eppure mi pare sempre più importante ribadirla.

 

Teme la banalità?

Certamente. Sono follemente innamorato delle parole. La mia è una patologia seria, mi provoca enormi sofferenze, non sempre gestibili. Un tempo, correggevo i jingle pubblicitari perché mi urtava l’uso di termini troppo corrivi. Per non parlare degli errori grammaticali: mi feriscono, capisce? Vorrei che intendesse quanto mi feriscono.

 

Da cosa deriva questa sua insofferenza?

Patisco gli stereotipi, sebbene io sappia perfettamente che spesso hanno un fondamento serio e concreto, che non sono invenzioni, bensì generalizzazioni improprie. Mi disturba, però, quando diventano una chiave di interpretazione della realtà. Non intendo affatto demonizzarli: ho una passione divorante per la  musica leggera, se detestassi gli stereotipi non potrei ascoltarla, visto che la musica leggera trova il sublime proprio nel riscattare la banalità.

 

La musica leggera è pop?

Il pop è indefinibile, specie adesso che tutto viene definito pop. Negli anni Settanta si distingueva con notevole rigore tra rock e pop, per esempio, mentre adesso è stato tutto unificato sotto quest’unica categoria agglutinante e gigantesca, al cui interno ciascuno ritaglia il suo pezzo di piacere, di gusto. Per me, pop è Cesare Cremonini, perché lo ritengo l’unico beatlesiano che ci sia in Italia. Mi sembra il solo interprete, anzi l’unico degno discepolo di quella tradizione, che non derivò da una invenzione congiunturale e che quindi ha lasciato una scia alla quale può allacciarsi un artista di oggi che voglia emanciparsi dal consumo brutale e che voglia scrivere qualcosa destinato a durare.

 

La musica contemporanea la butta giù?

No! Io ascolto tutto, seguo le radio, mi piacciono i giovani, conosco tutte le nuove voci femminili, la mia ultima passione è Flo, che lei di certo non sa chi sia.

 

Ammetto, ignoro. Scopre tutto soltanto con la radio? Nessuna piattaforma?

Mi trovo benissimo con la radio. Ne ho tre, tutte uguali e vecchie, novecentesche, ne compro spesso, ormai solamente online, e ho sempre la sensazione di partecipare a un’asta di reperti archeologici. È un mezzo che si sposa con una buona capacità ricettiva che penso di avere e che non ha nulla a che fare con la cecità. Io ormai non vedo più niente e le posso garantire che nella mia condizione non si affina nessun altro senso, diversamente da quello che dicono. Sei cieco e basta. Non vedi e basta. Io non vedo e basta, anche se continuano a dire che sono ipovedente - che parola ridicola, tutte le volte che me la propinano, rispondo che sono ippovedente, vedo andando a cavallo.

 

I dischi li compra?

Compro i cd. Ho scoperto che tutti quelli che hanno il giradischi, non lo usano. Me incluso. Soffro molto da quando hanno tolto ai pc la fessura per i cd. Che tragedia! È stata una rivoluzione tecnologica regressiva, ma io mi sono opposto: ho continuato a usare lo stereo e ad andare in giro con il lettore cd.

 

Ha anche un Nokia del 1768, vedo.

Sì, gli sono molto affezionato. Anche di questo ne ho tre.

 

Perché ha tre di tutto?

Mi casca continuamente tutto. Una delle cose più devastanti della cecità è la caduta delle cose e poi, ancora più frustrante, la ricerca delle cose cadute. Voi normodotati ignorate che qualunque oggetto cada, fa regolarmente una traiettoria diversa da quella che uno si aspetta. Cade una batteria della radio e non finisce mai dove supponi tu e allora ti devi mettere a cercarla gattonando, disperandoti. È profondamente umiliante.

 

Come fa a scrivere?

Detto.

 

Ha le idee molto chiare.

Non tengo in conto nessuna delle cose lusinghiere che mi dice.

 

La converto in una domanda: ha le idee molto chiare?

Se dico di no, sono un fesso e se dico di sì, un vanaglorioso. Ho un metodo, comunque. Formulo nella mia testa un incipit e ci metto persino la punteggiatura. Poi, con le mie collaboratrici, faccio il resto. Quando scrivo un articolo, comincio a lavorarci al mattino poi lo riprendo nel pomeriggio e, quando ho finito, lo rileggo almeno dodici volte. È importante che le parole siano precise.

 

Ma le parole sono imprecise per costituzione.

Appunto. Meglio, sono ambigue, sempre allusive. Il compito di chi scrive, però, è scegliere quelle più giuste: la meta deve essere trovare le parole esatte. Per indicare i significati plurimi abbiamo bisogno di questo: di parole esatte.

 

Perché dice “abbiamo bisogno”? Intende che lo abbiamo in questo momento preciso?

Sì, forse ora più che mai. Però, quando nei discorsi pubblici o sui giornali si dice “in questo momento”, non ci si rende mai conto che quella formula è stata usata anche dieci anni prima e dieci anni prima ancora, intendendo tutte le volte l’eccezionalità del momento, laddove di eccezionale non c’era niente: al contrario, c’era la reiterazione di un sentimento. Oggi sento un bisogno più forte di uno sforzo linguistico improntato alla precisione per via della decadenza del linguaggio pubblico, che è peggiorato per un generale deterioramento culturale della classe politica istituzionale, ma non posso omettere l’apporto dei social network e del web: credo sia stato straordinariamente dannoso. Anzi, straordinario è una parola che sto cercando di eliminare dal mio vocabolario: dirò eccezionale. L’abolizione della punteggiatura, la ricerca di ciò che si ritiene essenziale a scapito dell’ambiguità, della sfumatura, ha portato alla totale indifferenza verso ogni complicazione. Semplifichiamo tutto, senza senso, e perseguiamo unicamente la riduzione e l’azzeramento. La corrispondenza tra il deterioramento culturale della classe politica e quello del linguaggio domestico è pressoché perfetta. 

 

Cos’altro la mette a disagio della classe politica istituzionale di questo paese?

Intendiamoci. Nemmeno per un attimo io mi sono mai sentito estraneo al sistema politico istituzionale mediatico. Non sono un esule in patria. Sono stato in parlamento 12 anni e faccio militanza politica da quando ne avevo 20: non posso parlarne ponendomi fuori, quasi fossi innocente o vergine. Ed è per questa ragione che, anziché indicare cosa mal tollero, preferisco assumermi le responsabilità di quello che ho contribuito a creare. Negli anni della mia giovinezza soprattutto, ho partecipato alla bellicizzazione del linguaggio politico. Ne sono stato parte, l’ho accettata, ho contribuito al suo consolidarsi. Usavamo tutti parole sbagliate e così l’idea di scontro politico che elaborammo cominciò a prevedere che chi stava dalla parte opposta alla propria fosse un nemico, invece che un avversario.

 

Giorgia Meloni è sua avversaria o nemica?

Ovviamente avversaria. Penso che la sua cultura politica sia una sciagura per il nostro paese, ma questo non fa di lei una mia nemica. Io non ho più nemici politici da quando è stato rapito Aldo Moro.

 

Non la colpisce quando dicono che Giorgia Meloni ha talento politico?

Vade retro Satana!

 

Oddio, non si arrabbi!

Vade retro Satana! Quelli sono gli stereotipi e le banalità che mi ripugnano e di cui le parlavo prima. “Buonanotte fiorellino” non è banale: è il sublime del banale. Giorgia Meloni è brava? È ovvio che lo è: come potrebbe non esserlo una persona che guida un partito e lo fa crescere? Il circolo politicistico, che parla sempre in modo molto modano e futile, si accontenta di queste categorie molto povere e civettuole: brava/non brava; efficace/non efficace. Non si pone il problema di sostanza.

 

Chi è stato il suo miglior avversario?

Non sono stato particolarmente fortunato, ma la prima che mi viene in mente è Paola Binetti. Sostenni una volta che doveva stare nel PD, dopo che era stata portata in parlamento da Rutelli, perché a quei tempi ritenevo che il PD dovesse e potesse avere al suo interno Farina e Binetti. Farina era un parlamentare di Rifondazione comunista, leader del Leoncavallo, e Paola Binetti una cattolica e una esponente dell’Opus dei.  

 

Lei andava al Leoncavallo?

Sì, da amico e non da partecipante. Sono stato il primo eterosessuale a frequentare il circolo omosessuale ARCI di Bologna, il circolo di Franco Grillini, nella seconda metà degli anni Ottanta. Si chiamava Il Cassero.

 

Incrociava mai Pier Vittorio Tondelli, in quella Bologna?

No. Lui stava in altri flussi, era molto critico verso la politicizzazione dell’omosessualità. Andavo spesso a parlare, a fare degli incontri: mi invitavano spesso. Nessuno mi chiese mai se fossi omosessuale. Ero io a chiedermi come mai dessero per scontato che non lo fossi: non fui mai capace di rispondermi.

 

Non capisco la ragione del suo cruccio, dopotutto lei non era e non è omosessuale.

Non è cruccio, ma stupore. Comunque, sono sempre riuscito a distinguere la sfera personale dall’agire politico e questo mi ha sempre portato a rifiutare l’immedesimazione – e non certo perché io non sia emotivo, anzi: piango spesso, mi commuovo, partecipo alle cose in modo molto sentimentale. Però ho avuto presto la fortuna di capire che l’immedesimazione è un inganno, una truffa ai danni di coloro nei quali ci si immedesima. Tu privilegiato e garantito non puoi immedesimarti in un omosessuale perseguitato dalla polizia o in un immigrato, o in un rom. Lo stesso vale per il colpevole: non ho bisogno di sentirmi lui, o come lui, per difenderne i diritti e le garanzie. I diritti hanno questa forza: non pretendono da te una relazione sentimentale con la vittima.

 

Lei è femminista?

Non penso possa esserci un maschio femminista. Negli anni ‘70 e ‘80 ho letto molta letteratura femminista. Il movimento delle donne, in Italia, si divise subito in quello di ispirazione socialista e comunista, guidato dall’UDI, l’Unione Donne Italiane, e quello propriamente femminista che era separatista, trasgressivo e irregolare. Io ero affascinato dalle irregolari, leggevo Carla Lonzi, anche se di “Sputiamo su Hegel” non capii niente e lo prestai ad Adriano Sofri raccomandandogli di leggerlo per poterne parlare, visto che lui era  più colto. Ma non lo facemmo mai. In quegli anni ero molto appassionato anche di Luisa Muraro, filosofa e femminista.

 

Sa che le hanno dato della transfobica?

Non mi faccia ridere, non mi faccia piangere, non mi dica niente.

 

Come conobbe Muraro?

Faceva l’assistente alla Cattolica di Milano, insieme a Rosetta Infelise. Furono loro ad avviarmi al lavoro politico di fabbrica: mi ritrovai con loro nel comitato unitario di base della Pirelli Bicocca, uno dei primissimi organismi extra sindacali. Andavamo lì a distribuire volantini firmati CUB Pirelli, perché il CUB era formato da un gruppo di studenti e di docenti più alcuni operai di avanguardia. Pensi com’era bello ed esplosivo il mondo in quegli anni.

 

Erano anche gli anni in cui lei faceva parte di Lotta Continua.

Già. E questo mi catalogava automaticamente come maschilista.

 

Lo era?

Temo di sì. Anche se venivo da Sassari non ero un provinciale sprovveduto, avevo studiato al liceo classico dove si erano diplomati Togliatti e Berlinguer, una scuola piuttosto promiscua dove la mia fu, almeno credo, la prima generazione che non andò a puttane. La rivoluzione sessuale era agli inizi, ricordo uno scambio costante con le ragazze. A Milano, quindi, non arrivai impreparato: la grande città fu per me un acceleratore, non un ribaltamento. Nonostante tutto questo la rivoluzione femminile mi mise in questione in profondità: mi resi conto che, almeno inconsciamente, per un maschio è praticamente impossibile non essere maschilista.

 

Lo pensa ancora?

Sì. Anche se esercito tutto il mio controllo e ho coscienza di me. Sono certo che la battaglia contro questo riflesso non si concluderà con la mia generazione, forse nemmeno con la sua. Siamo lontani persino dal raggiungimento di una cosa banale come le quote, si figuri. Io ho cambiato idea: le ritenevo un pessimo strumento, ora trovo che siano necessarie.

 

Su cos’altro ha cambiato idea?

Ho tenuto per dieci anni sul Foglio una rubrica che si chiamava Politicamente Correttissimo e oggi, invece, una delle cose che più mi manda in bestia è la lotta mondiale al politicamente corretto, del quale ho imparato a riconoscere le giuste motivazioni, pure alla luce delle innegabili esagerazioni, ma sa, nella fase adolescenziale tutti i movimenti sono dirompenti, senza regole ed eccessivi perché sono espressioni di una euforia collettiva. Al fondo di questo movimento specifico c’è una gusta ragione morale, che nasce intorno a un principio sempre trascurato, ovverosia che uno dei diritti fondamentali è quello al proprio nome: il diritto delle persone e delle comunità a scegliere la definizione di sé. La rivendicazione del proprio nome è premessa di ogni affermazione di identità e condizione del riconoscimento della propria dignità: questo è il motivo per cui il pol corr suscita lo scandalo di tutti i reazionari di destra e di sinistra. Da anni sento fare ironia sulla definizione di operatore ecologico che è stata data agli spazzini. È evidente che è letterariamente impropria, abbastanza ridicola e pretestuosa, ma ci si è arrivati perché il termine spazzino, nel tempo, aveva finito con l’assumere un significato denigratorio. Sarebbe quindi giusto non tornare a spazzino, bensì trovare un’altra definizione non risibile. Con tutte le buone ragioni per contestare gli eccessi, il politicamente scorretto mi è parso negli anni una specie di espediente per poter continuare impunemente a chiamare frocio il frocio e negro il negro.

 

E quelli che dicono: ho sentito un omosessuale rivolgersi a un omosessuale chiamandolo checca e nei film americani i negri si chiamano negri tra loro?

Appunto! Tra gli affini c’è una libertà che parte dall’assunto che quel termine usato da un omosessuale verso un altro omosessuale non ha più quel significato spregiativo così come gli afroamericani tra loro si chiamano negri perché l’assunto è che tra loro il termine negro non ha un significato spregiativo. Oltretutto, la lotta contro il pol corr ha incontrato parole scellerate come buonismo: è l’altra degenerazione del linguaggio che nasconde una degenerazione intellettuale, che ha fatto dell’affermazione di alcune opinioni reazionarie una sorta di criterio dominante, facendo sì che diventasse buonismo salvare chi sta affogando in mare: si assiste così non al rovesciamento di un atteggiamento retorico o sentimentale, ma alla distruzione di un intero capitolo della civiltà giuridica.

 

Come possiamo aspettarci che i genitori di una ragazza assassinata accettino che chi l’ha uccisa non vada in galera? Io sto con lei sull’abolizione del carcere, ma temo sia un’utopia.

Penso che i familiari delle vittime abbiano tutte le ragioni del mondo e proprio per questo, il dialogo con loro è drammaticamente impossibile, a meno che loro non rinuncino a una parte delle loro ragioni che sono assolute, incondizionate. È uno sforzo immane, da santi, ma qualcuno riesce a farlo. Sono contento di essere uno degli autori de “Il libro dell’incontro” (Il Saggiatore), dove si racconta come tra i familiari delle vittime e gli autori dei crimini e reati possa esserci un dialogo, e lo fa raccogliendo una esperienza di incontro andata avanti per sette anni con migliaia di ore di conversazione tra familiari e autori di reato.

 

Vedo che ha i libri di Milo De Angelis sulla scrivania.

È un poeta che amo profondamente.

 

Le piace la poesia?

Eccome. Quando lasciai Sassari per Milano, dove avevo vinto una borsa di studio all’Università Cattolica dalla quale fui espulso dopo un anno e tre mesi, portai con me due libri di poesia: “Le case della Vetra” di Giovanni Raboni e “La capitale del Nord” di Giancarlo Majorino. Dopo un anno che ero a Milano, incontrai Giovanni Raboni nella sede di un circolo anarchico. Vidi quest’uomo bellissimo, alto ed elegante e mi presentai immediatamente, gli dissi che le sue poesie mi avevano accompagnato nella mia nuova vita a Milano e lui mi diede il suo numero di telefono. Fu la mia salvezza: quando fui espulso dalla Cattolica, persi ogni sussidio anche da parte della mia famiglia e fu lui a darmi una mano.

 

La sua famiglia era d’accordo con chi l’aveva espulso?

I miei genitori avevano due capisaldi: la fede religiosa e l’amore per i figli. Io trasgredivo in continuazione, quindi li ferivo. L’espulsione fu per loro una tragedia proprio perché, amandomi moltissimo, non potevano accettare che la mia vita potesse portare addirittura a farmi rifiutare dall’istituzione dove erano felici che io fossi entrato. Poi ne combinai molte altre. Nel ‘73 andai in prigione per 7 mesi. Ma loro hanno sempre cercato di tenere il filo di affetto con me nonostante tutto: sia chiaro, io assecondavo il mantenimento del rapporto. Ogni 6 o 8 mesi, scrivevo loro una lettera in cui dicevo: queste sono le mie idee, non intendo cambiarle, tuttavia vorrei rimanere vostro figlio. E la cosa funzionò.

 

In che modo Raboni la aiutò?

Mi diede da compilare le voci dell’enciclopedia Garzanti. Un lavoro bellissimo che diventò la mia fonte principale di reddito. Vivevo con la mia prima compagna e nostro figlio e ricordo che scrivevo quelle voci in presenza di un bambino che urlava, giocava, suonava. Presto notai che la mia era una condizione comune: molti miei coetanei rivendicavano con orgoglio quell’apprendistato. Da allora riesco a scrivere nel casino più totale.

 

Poesie ne ha mai scritte?

Ho smesso a diciannove anni, come saggiamente prescritto da Croce. Solo una volta, più avanti, ho scritto un sonetto per Michel Platini: lo pubblicò su una sua rivista molto austera, Pagina, Ernesto Galli Della Loggia.

 

La ricorda a memoria?

Ma si immagini. Era un gioco.

 

È felice?

Posso raccontarle una barzelletta che mi ha raccontato Carmelo Cantone, un dirigente dell’amministrazione penitenziaria che ama le barzellette oltremisura?

La prego.

Marito e moglie camminano su una strada, sul marciapiedi opposto c’è una coppia che va nella direzione contraria. La moglie dice al marito: “Quell’uomo ti sembra felice?”. Il marito risponde: “No. Felice è più alto”. 

A me è sempre parsa magnifica, quasi metafisica. È la mia risposta alla sua domanda: mi sento abbastanza bene in questo momento della mia vita, ma felice è più alto.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.