EPA/PAOLO AGUILAR

Il “ritorno all'originale perduto” di Ghirri, fotografo filosofo dell'immagine

Luca Fiore

L’enigma della fotografia nel saggio di un maestro del novecento: sarà un nuovo must per gli appassionati

L’evento dell’anno nel mondo dell’editoria italiana di fotografia è l’uscita di un libro che non contiene neanche un’immagine. Si tratta di Niente di antico sotto il sole – Scritti e interviste di Luigi Ghirri (Quodlibet, €22 euro). Il fatto notevole è che, nonostante il fotografo di Modena, scomparso nel 1992, sia stato riconosciuto a livello internazionale come uno dei maestri del secondo Novecento e che questa raccolta sia uno dei libri più affascinanti che si possano leggere sul tema della fotografia, il volume era da tempo diventato irreperibile. Chi avesse voluto studiare il pensiero di Ghirri doveva procurarsi la versione inglese pubblicata da Mack.

 

L’edizione originaria, uscita nel 1997 per la Sei, e di cui quelle odierne, italiana e inglese, sono figlie, era stata curata da Paolo Costantini, che raccolse ed editò i testi, e da Giovanni Chiaramonte, che propose un’antologia di immagini. Il titolo di quel libro, infatti, era Niente di antico sotto il sole – Scritti e immagini per un’autobiografia. Nella convinzione che Ghirri, la propria storia, l’avesse scritta in egual misura con le parole e con le fotografie. Oggi il volume di Quodlibet propone, al posto della nota all’edizione di Chiaramonte e della premessa di Costantini, il saggio che Francesco Zanot aveva scritto per Mack.

 

Con questa operazione si tenta di sanare una grave lacuna nel panorama della saggistica e permetterà al libro di Ghirri di entrare in modo permanente nell’elenco dei testi imprescindibili per chi voglia leggere e capire di fotografia. Anche se il consiglio ai librai è di inserire il volume nella sezione “saggi d’arte”. Il suo posto è quello.

 

Il percorso di Ghirri, infatti, prende avvio non nei circoli fotografici come era avvenuto per alcuni grandi che lo avevano preceduto, come Paolo Monti o Mario Giacomelli, ma nell’ambiente dell’arte contemporanea. E la riflessione che emerge dalle sue pagine è figlia di un dibattito innervato dalle istanze dell’arte concettuale che, spesso, metteva in discussione, sul piano teorico, la possibilità dell’immagine in quanto tale. E lo stesso Ghirri concepisce in maniera problematica la pratica iniziata con Daguerre, che definisce “l’enigma fotografia”. Sin dalla sua scoperta, “una interminabile sequenza di domande sono arrivate ai nostri giorni senza che uno solo dei problemi e dei quesiti che accompagnano la fotografia abbia avuto risposta”. Daguerre, per Ghirri, “avvicinandosi per primo alla frontiera del ‘già visto’ e contemporaneamente del ‘mai visto’, intuisce che da quel momento la vita degli uomini sarà accompagnata da questo doppio sguardo, da uno scarto, una specie di alone che abiterà persone e luoghi”. Da qui quel suo fare il verso al Libro dell’Ecclesiaste: “Niente di antico sotto il sole”.

 

Un enigma che attraversa i fotografi da lui amati, soprattutto americani: Walker Evans, William Eggleston, Robert Adams. Ma anche giovani allora ancora sconosciuti come Vincenzo Castella. E’ una prosa che cita maestri della pittura, grandi della letteratura, filosofi, e il “suo” Bob Dylan. Ma c’è soprattutto la domanda sul significato dell’arte e della vita. “Quello che ci è dato di conoscere, raccontare, rappresentare non è che una piccola smagliatura sulla superficie delle cose”, scrive nel 1988. “Questa consapevolezza è anche il desiderio, forse ingenuo, del ritorno a uno stato di purezza, un grado zero della visione”. Altrove Ghirri usa l’espressione: “ritorno all’originale perduto”. Perché, spiega, “questo sentimento dell’origine delle cose è il punto da cui parto per guardare nel paesaggio, sapendo che non esistono risposte definitive, ma continuando a interrogarmi, perché nel gesto di pormi continuamente la domanda è contenuta la risposta”.
 

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