EPA/PAOLO AGUILAR

Terrazzo

Ghirri mania

Giulio Silvano

Scrollando su Instagram l’altro giorno mi è apparsa la pubblicità di una maglietta rosa con scritto in rosso: + Ghirri – Sbirri.  Ho riso e ho girato il post a un’amica fotografa che mi ha risposto “la voglio!”.

Tutti la vogliamo. Poche scritte condensano in così pochi caratteri l’ironico stendardo nella nostra bolla. Generico antimilitarismo e mesta estetica sognante di provincia italica. (Manca solo l’oroscopo, unica nostra religione). Luigi Ghirri, il fotografo di Scandiano, nato nel ’43 sotto il segno del Capricorno e morto a quarantanove anni, ex geometra, autodidatta, oggi istituzionalizzato al Jeu de Paumes e al Moma, è venerato come cantore di un’indefinibile italianità, incantata ma terrena. Palme simmetriche su una riviera, cartelloni pubblicitari ingialliti dal sole, gelati, spiagge deserte in inverno, famiglie di spalle che guardano il mare, stand di cartoline.

 

Ha dato un’importanza ad alcune immagini che sembravano normali, che sembravano senza peso, ha dato un’epicità”, dice Vasco Brondi, che ha scelto una foto di Ghirri per il suo nuovo album, Paesaggio dopo la battaglia. Nuvole grigie e minacciose, una macchina ferma: “Italia sotto cieli struggenti / Tra ristoranti e cuori sempre aperti”. L’occhio di Ghirri ci scioglie i cuori, ce li apre. (Un po’ una Vivian Maier reggiana, noi che amiamo riscoprire).

 

Nel giorno della Liberazione il nostro feed è invaso dalla sua foto del bambino che cammina con la bandiera rossa, seguito dalla madre, e poi di nuovo per l’anniversario della morte di Berlinguer: foto di schiena del segretario alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia dell’83, quando il Pci sfiorava il 30 per cento alle elezioni. Proviamo tenerezza per un uomo che non abbiamo mai visto, per un partito che non abbiamo mai potuto votare. Nel primo album, quando Brondi si chiamava ancora Le luci della centrale elettrica, c’è una canzone “La gigantesca scritta Coop” che fa: “E i Cccp non ci sono più / E i Cccp non ci sono più da un bel po’”. C’è simbolo più eloquente del potere della sinistra nelle regioni rosse di una gigantesca scritta Coop?

 

La fotografia è documentazione. Ma non tutta la documentazione provoca malinconia. Cesare Zavattini, nato a Luzzara, verso il fiume, sul confine con la Lombardia, diceva: “Ho sempre creduto che la malinconia fosse originaria del Po. E che altrove si trattasse di imitazioni”. Poi c’è la via Emilia, la pianura, quella di Gianni Celati (suo grande amico), che scrive: “Dicono che ognuno corre dietro a certe illusioni e nessuno può farne a meno, perché tutto fa parte d’uno stesso incantesimo”. Un luogo immobile l’Emilia, pieno di storie, di malinconia e incantesimi. Gran parte delle foto di Ghirri son fatte a meno di due chilometri di distanza da casa sua.

 

Il microcosmo emiliano, terra di lambrusco e cantautori simpatici, si mescola con le intuizioni dei concettuali modenesi, Carlo Cremaschi, Claudio Parmeggiani, Franco Guerzoni, e porta Ghirri ad applicare la prospettiva rinascimentale su un ombrellone chiuso, su una spiaggia senza uomini, a Marina di Ravenna. C’è il Ghirri con le persone – anche se spesso girate – e il Ghirri senza uomini, senza carne. A volte il suo sguardo sembra quello di un alieno un po’ naif che, sbarcato sul pianeta Terra negli anni 70, non sa cosa sia il bello o il brutto, che non sa la differenza tra una scultura e un cestino della spazzatura, tra una nuvola e la foto di una nuvola, così fotografa cose, scorci, pezzi di città, di luoghi di villeggiatura, che per qualche inspiegabile motivo lo attraggono. Un’insegna al neon di un bar in fondo a un parcheggio, la pubblicità del Campari, una saracinesca chiusa, dettagli di un Luna Park, carta stellata di un presepe accartocciata.

 

E non è quello che cerchiamo noi quando tiriamo fuori l’iPhone, camminando in strada? Sentiamo una pulsione. Vediamo un potenziale ghirresco, proviamo a riprodurlo – cercando simmetrie, usando filtri – e falliamo.  Quante volte in Vespa verso Tellaro mi sono fermato a fotografare la scritta dell’Eco del Mare, senza mai riuscire a riprodurre quel senso di infinito…

 

Come una manna per noi della Gen Y ad aprile 2019 Luigi Ghirri  – gli eredi, la fondazione – è sbarcato su Instagram. Una sintesi hegeliana. Un bellissimo paradosso. Perché quell’estetica che noi chiamiamo vintage, retro, è come se l’avesse inventata lui e lo amiamo per questo. Mettiamo la didascalia “estate italiana” sotto la foto di un nostro amico che mangia un cornetto Sammontana, ci emozioniamo per dei cartelloni pubblicitari, guardiamo con altri occhi le sedie di plastica rosse di uno stabilimento balneare di Tirrenia, di Lerici, di Bocca di Magra. Non c’era bisogno di manipolazione, la luce italiana negli anni della Maggioranza Silenziosa era un naturale filtro Reyes.

 

I colori sono importanti. “Everything looks worst in black and white”, cantava Paul Simon in Kodachrome, una canzone dedicata alla pellicola Kodak (l’ultima è stata sviluppata nel 2010). Luigi Ghirri in bianco e nero non esiste. Kodachrome è anche il titolo di un suo libro del ’78 (autoprodotto) dove scrive: “La realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotomontaggio è già avvenuto: è nel mondo reale”. Fotografare le fotografie, fotografare le cartoline.

 

Più che inventore quindi profeta.

 

Facciamo gli screen su Google Maps ai nomi buffi o strazianti di certe location, esiste un account, @sadtopographies (ora anche libro), che raccoglie destinazioni topograficamente tristi, posti come Suicide Bay e Devastation Island. Nel ’73, nel seminterrato di casa sua Ghirri fotografa le pagine di un atlante e scrive: “Il solo viaggio possibile sembra essere ormai all’interno dei segni, delle immagini: nella distruzione dell’esperienza diretta”. Fotografa la parola Oceano “che ci rimanda a infinite possibili immagini che noi possediamo mentalmente, mano a mano che la scrittura sparisce, spariscono meridiani e paralleli, numeri, il paesaggio diventa ‘naturale’, non viene più evocato”, ma si dispiega davanti a noi. “Il viaggio è così dentro all’immagine, dentro al libro”.

 

E cos’è quindi il viaggio in un gigante parco divertimenti-modellino che riproduce tutta la penisola? Tra ’77 e ’78 Ghirri a Rimini scatta i monumenti rimpiccioliti de “L’Italia in miniatura”. Vedere i tesori nazionali tutti insieme distrugge “con lo sguardo i tempi storici, le distanze kilometriche”. Umani giganti con i sandali si sentono Godzilla in piazza della Signoria o a San Marco o davanti a San Pietro. Un po’ mini golf un po’ Lego store. “E’ proprio in questo spazio, di totale finzione che forse si cela il vero”. Nonostante l’aria accidentale degli scatti percepiamo l’intellettuale dietro al fotografo, come ci succede leggendo una filastrocca di Rodari. Nelle sue parole vediamo una prospettiva umanista che va oltre quella della costruzione di un’immagine.

 

Domani esce per Quodlibet Niente di antico sotto il sole, dove sono raccolti scritti e interviste tra il ’73 e il ’91. I titoli dei paragrafi sono ottime didascalie per le nostre foto di Instagram. “L’Italia by night”, “Colazione sull’erba”, “Sulla strada, dylaniati”. Guardare gli scatti di Ghirri è come camminare dentro certi spazi, certe stanze e certe case dove riconosciamo qualcosa, sentiamo che qualcosa ci appartiene. “Sentiamo che abbiamo abitato questi luoghi, una sintonia totale ci fa dimenticare che tutto questo esisteva e continuerà a esistere al di là dei nostri sguardi”.

 

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