Il rimpianto di Hervé Guibert per le foto mai scattate, invisibili come fantasmi

Giulio Silvano

Finalmente in italiano l’opera del fotografo-romanziere: “L’immagine è l’essenza del desiderio. Mentre la luce, nel tempo, si vendica sempre di essersi lasciata imprigionare. E riemerge”, nella carta ingiallita

Le scatole da scarpe dove teniamo le fotografie di famiglia sembrano bare. Quando le apriamo tornano in vita volti e luoghi spesso dimenticati, figuranti irriconoscibili. Quasi mai queste scene – compleanni, pranzi di Natale, gite in montagna – coincidono con i nostri ricordi. Sono piene di spettri. “Le foto che mi sembrano buone sono sempre quelle non riuscite, sfocate, inquadrate male o scattate dai bambini, e che pur non volendo rimandano al codice viziato di un’estetica fotografica sfasata rispetto al reale”. Contrasto inaugura una nuova collana, Lampi, e pubblica finalmente in italiano “L’immagine fantasma” di Hervé Guibert che uscì nel 1981 quando lui aveva solo ventisei anni. Il romanziere-fotografo scrive questo testo per il rimpianto delle foto sbagliate, quelle che non è riuscito a scattare, foto “che si sono rivelate invisibili, come fantasmi”.

 

La fotografia si basa sul momentaneo. C’è un attimo perfetto, unico, irripetibile. E se non scatti in quell’istante non avrai mai più quella possibilità. Resterà con te la pressione del rammarico futuro. Nel puntare un obiettivo c’è il desiderio di fermare nel tempo un qualche sentimento. Rivedendo gli scatti si rivive quell’emozione. O il ricordo di quell’emozione. “La fotografia è una pratica inglobante e smemorata, mentre la scrittura, che essa non può che bloccare, è una pratica malinconica”.

 

Un po’ diario, un po’ riflessione sul perché facciamo foto o vogliamo possederle, guardarle o esserci dentro. Un po’ anche risposta a La chambre claire di Roland Barthes uscito l’anno prima, dove il soggetto immortalato viene chiamato spectrum. “Rispetto al libro di Barthes, L’immagine fantasma’ ha il comportamento del parassita, che trae dalla sua vittima la linfa vitale finendo per svuotarla”, spiega Emanuele Trevi nella prefazione. La parola “fantasma” tornerà nell’87 quando per Gallimard verrà pubblicato il romanzo Vous m’avez fait former des fantômes. Barthes, infatuato di questo giovane dai riccioli chiari e gli occhi di ghiaccio, in una lettera gli scriverà: “Andandotene così di fretta mi hai reso un seduttore”.

 

Intimissimi i testi come se la fotografia fosse un’analisi del sentimento. Come se la bellezza fosse sempre specchio di qualche tensione o tenerezza. Corpi cristallizzati in movimenti naturali, giovani che si tuffano all’Isola d’Elba, madri che invecchiano, il mistero della masturbazione preadolescenziale (Claudia Cardinale su una rivista, nuda, sdraiata su una pelliccia, più tardi sostituita da Burt Reynolds), la differenza tra pornografia ed erotismo. “L’immagine è l’essenza del desiderio”, scrive. Non esiste fotografia senza il dolore della cupidigia, il feticismo del voyeur viene impresso su carta lucida e nascosto in un cassetto o in mezzo a un libro, infilato in un portafogli, oppure incorniciato, appeso sopra un caminetto.

 

Il tempo passa, per i corpi e per le pellicole. Le fotografie ingialliscono perché “nel tempo, la luce si vendica sempre di essersi lasciata imprigionare: riemerge”. Neppure trentenne Guibert mostra già un alto grado di saggezza. Forse c’entra la Parigi intellettuale del dopoguerra, l’amicizia con Michel Foucault, o forse il senso del tempo che fugge, la malattia che li porterà via entrambi, l’Aids – che li farà sparire, piano piano, come fantasmi –, di cui Guibert racconterà fasi e dolori nei suoi romanzi. Fotografia & Malattia, un po’ come Susan Sontag, ma qui l’autore non sembra voler creare delle teorie, insegnarti qualcosa, è più un volersi denudare – il corpo, la memoria, il cuore – per condividere pulsioni e dolori di ogni essere umano.
 

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