Carla Fracci all'inaugurazione della stagione 2013 del Teatro La Scala (foto Gian Mattia D'Alberto / LaPresse)

L'ultimo volo di Carla

Se ne va la figlia del tranviere diventata prima ballerina della Scala a 22 anni. Emblema di un modo di fare arte tutto italiano. Montale le dedicò una poesia

Paola Calvetti

Di quella magnifica creatura che è stata Carla Fracci emozionano il viso e le braccia, che muoveva come ali di un paradisiaco uccello pronto a spiccare il volo

Di Sit tibi terra levis, Carla.

Sì, la terra sarà lieve, per lei, simbolo di volo, di inafferrabile levità, che pure, della creatura terrena, aveva tutto: la serietà, l’ostinazione, un calvinista, meneghino rispetto per la “fatica” del lavoro che rivendicava con orgoglio “da contadina figlia del tranviere Luigi”. L’eterna fanciulla danzante di Eugenio Montale è morta a ottantaquattro anni lasciando attonita la sua Milano che, appresa la notizia, si è fatta silenziosa nello spazio di pochi minuti. Da donna riservata e concreta non aveva lasciato filtrare la malattia che la logorava da tre anni: era alla Scala nel dicembre scorso a regalare alle prime ballerine della compagnia i segreti della sua indimenticabile Giselle e solo pochi giorni fa si aggirava sul set della fiction Carla (di prossima programmazione su Rai Uno), che ne racconta i primi successi, i frenetici anni Cinquanta in una Milano in pieno risveglio post bellico, quando la bambina magrolina, entrata alla Scuola di ballo della Scala quasi per caso (un classico, nelle personalità destinate alla leggenda), spiccava il suo primo volo ufficiale, nella Cenerentola. Tre anni dopo, a 22 anni, è prima ballerina. Per paradosso, in chi per “mestiere”, (definiva così e non altrimenti la sua arte) non deve tenere i piedi per terra ma volare, di quella magnifica creatura emozionano le braccia, che muove come ali di un paradisiaco uccello pronto a spiccare il volo ne Il lago dei cigni e il viso radioso di Aurora ne La bella addormentata, l’espressione corrucciata e birichina di Coppelia, lo smarrimento dell’ indimenticabile adolescente Giulietta di John Cranko, la straziata e straziante Gelsomina ne La strada che commuove alle lacrime Fellini e Masina. 

 

 

Fracci diventa una star o per meglio dire, una stella, come si diceva allora. È l’Italia nel mondo, che percorre da blasonata ospite in lungo e in largo, evocando i trionfi internazionali dell’attrice Eleonora Duse, emblema di un modo di fare arte tutto italiano: al London Festival Ballet e al Sadler's Wells Ballet di Londra, allo Stuttgart Ballet, al Royal Swedish Ballet di Stoccolma e, a fine anni Sessanta, all’American Ballet Theatre, che la consacra “divina”. Accanto a lei, danzano i migliori: Erik Bruhn, partner di una memorabile Giselle, della quale fortunatamente si conserva la storica edizione filmata nel 1969, Vladimir Vasiliev, Gheorge Yancu, Rudolf Nureyev del quale subisce, con la furba modestia di una leonessa, l’imperiosa personalità e le prepotenze in scena e fuori di essa. Baruffe fra artisti, sublimate da una capacità di metamorfosi che travolge il pubblico a ogni rappresentazione.

 

Fracci “è” la prima ballerina assoluta della Scala di Ghiringhelli e poi di Paolo Grassi, ma è l’incontro e il matrimonio con il regista Beppe Menegatti a fare di lei una donna “diversa”, che affronta ruoli e personaggi rimasti un marchio: drammatica, attrice, spavalda protagonista di donne di razza. Isadora Duncan che danza sull’Internazionale, Francesca da RiminiLa bambola di KokoschkaLa primavera romana della signora Stone e decine di altre, che il marito regista-pigmalone forgia su un talento attoriale fuori da ogni convenzione. Il coraggio impertinente dell’artista curiosa è l’atout di una carriera senza fine: Fracci osa sempre, non si sottrae alle proposte più impegnative, come la Strepponi televisiva di Castellani o la terza incomoda, minuta e aggraziata in un memorabile balletto accanto alle giunoniche gemelle Kessler di Studio Uno. Gli anni passano, la ballerina invecchia, ma non la Fracci che a sessant’anni suonati, quando le sue colleghe hanno già appeso le scarpette al chiodo, considera eccitante, anzi “perfetta per lei” l’offerta di Roland Petit che la immagina Léa de Lonval, accanto a un giovanissimo Massimo Murru nella versione danzata di Chéri alla Scala.

 

Carla Fracci e il marito, il regista Beppe Menegatti (foto LaPresse) 
  

La Scala: il sogno di dirigerne la compagnia rimarrà tale. Un cruccio, per Fracci, che non esita a ricordarlo in ogni intervista, quando accetta di dirigere il Corpo di Ballo del San Carlo di Napoli e, poco dopo, quello dell’Opera di Roma. 

 

 

Ma la figlia del tranviere si definisce donna di sinistra e abbraccia l’impegno politico danzando nel Teatro Quartiere di Chiesarossa, di Piazzale Cuoco, di Quartoggiaro  – ah la periferia! – voluti da Paolo Grassi negli anni Settanta; non perde un 25 aprile e marcia – leggiadra, sempre in abito bianco come una moderna suffragetta - accanto ai sindaci Aniasi, Tognoli e Pisapia e all’uomo della sua vita, Beppe Menegatti, oggi novantunenne, al quale non mancherà il dolente abbraccio di una Milano attonita, un po’ più grigia nonostante Carla, luminosa regina della danza, le abbia detto addio in una dolce giornata di sole.