Una foto di scena da "Zero", la serie Netflix (Ansa)

Più grandi di noi

Simonetta Sciandivasci

Basta guardare la serie tv “Zero”, ascoltare l’ultimo disco di Madame, per capire che il languore della Generazione Z in realtà è solo nostro

 

Dice il New York Times che “l’emozione dominante del 2021” sarà il languore. I più illanguiditi sono forse i ragazzi, la GenZ, quelli che, accidenti, prima di questa sciagura ci sembravano agili, pratici, sfidanti, avventurieri, nuovi, operosi, in omnia parati e in tutto e per tutto diversi da chi è stato ragazzo prima di loro, i peterpaneschi adulti d’oggi. Dice Nextatlas in un compiutissimo studio sulle loro abitudini culturali, condotto tramite intelligenza artificiale perché “alla GenZ sono state assegnate molte etichette che rischiano di appiattire una realtà multiforme e contraddittoria che, per sua natura, rifugge dalle generalizzazioni, e allora la cosa migliore è analizzare i dati tramite AI”, che questo loro languore ha prodotto consumi precisi, riferiti a un mercato preciso, quello della bored economy, sostanziata dalle cose che compriamo per tenerci occupati e non venire risucchiati dalla noia casalinga – videogiochi, primariamente.

 

L’anno scorso avevamo paura, sentivamo il tumulto; adesso non abbiamo niente, sentiamo il vuoto. Essere sopravvissuti a una catastrofe che si è cronicizzata, spingendoci fuori dall’emergenza e dall’allerta, ci ha rassicurati in un senso preciso ma atroce: ci ha detto che niente dipendeva da noi. Certo, insieme ai governi e alle amministrazioni, noi stessi ripetiamo che, invece, dipende da noi, che dobbiamo stare attenti come mai prima d’ora perché non ne siamo fuori anche se sembra quasi di sì: tuttavia, su queste buone intenzioni grava il peso d’aver visto molti sforzi vanificarsi o comunque produrre effetti assai meno potenti del previsto; grava il possibilismo scientifico, al quale non eravamo abituati e che ci ha fatti infuriare; grava il solo dato certo che abbiamo da più di un anno: di sicuro non c’è niente, a parte che non c’è paese che non abbia fallito contro il Covid. Siamo impotenti anche se abbiamo tra le mani decine di rimedi, che però non sono risolutivi nell’immediato ma soltanto in prospettiva – per di più, una prospettiva dai contorni confusi. Così, anche le rare spinte vitali e vitalistiche, gli impeti, l’iniziativa, finiscono con l’essere mortificati: manca una ragione concreta per farli maturare, per inseguirli.

 

È come quando sei adolescente e, al picco del tuo malessere, se pure sai che finirà, resti immobile, hai la convinzione di trovarti in un pozzo profondissimo: non soffri, non reagisci, sei indifferente alla tua propria indifferenza, aspetti che il tempo passi, talvolta lo riempi. E magari è anche per questo che i più illanguiditi sono i più giovani o, almeno, così sembra a noi che li leggiamo, scrutiamo, indaghiamo, e lo facciamo analizzando algoritmi, scontrini, app, cioè le cose dalle quali li rimproveriamo di essere dipendenti e, soprattutto, deprivati delle quali li accusiamo di non sapere né volere orientarsi. Ora abbiamo deciso che sono languidi perché comprano videogame, sebbene i ragazzi spendano molto in videogiochi da quando esistono i videogiochi. Che gli Z, quelli che sono scesi in piazza per il pianeta, quelli che ascoltano rap, che sono rappresentati da un sacco di enfant prodige (veri o sopravvalutati non importa), che non bevono, che amano leggere, che rimproverano i genitori per come fanno la raccolta differenziata e come declinano i pronomi, che proprio loro si siano piegati allo spleen pandemico lo diciamo perché è vero o perché è un modo, come sempre raffazzonato, di preoccuparci di loro anziché occuparcene?

 

Di bored economy non c’è traccia nel disco di Madame e nemmeno in “Zero”, la nuova serie di Netflix scritta da Antonio Dikele Distefano, che parla di un gruppo di adolescenti italiani figli di immigrati, di come cerchino di salvare il quartiere in cui vivono da un gruppo di immobiliaristi che, per svenderlo, paga una banda di vandali che lo degradino. Sono due lavori che offrono una visione più vibrante, larga e libera di questa generazione, forse più onesta di qualsiasi analisi che, indipendentemente dalla bontà che la anima, trova un limite nei suoi parametri (nella maggior parte dei casi, decisi da adulti) e nell’inevitabile sintesi dei risultati. L’attenzione sulla GenZ ha ragioni soprattutto economiche: trattandosi di una generazione che sa muoversi con grande naturalezza sui social network, per i brand che vogliano accattivarseli è fondamentale non deluderli, rispondere alle loro aspettative, disporre di un’immagine che rispecchi i loro princìpi; il potere di spesa di questi ragazzi a livello globale è pari a 150 miliardi (dati Nextatlas). Sappiano allora le aziende che questi ragazzini che spostano consumatori hanno un forte senso della realtà: non vagheggiano, non vaneggiano, stanno con i piedi ben piantati a terra, sanno perfettamente che uno zingaro è un trucco, non sopportano le convenzioni, il binarismo, la menomazione delle possibilità, la rigidità degli schemi, fanno politica non discettando di Gramsci alla sede del Pd di Testaccio bensì boicottando le multinazionali e gli assorbenti e selezionando con attenzione maniacale i marchi da cui comprare vestiti e creme, rintracciando il razzismo in chi si esprime male su Facebook e sui giornali, mobilitando gogne virtuali, lavandosi lo stretto indispensabile, ripudiando i giornali tradizionali ma informandosi molto attentamente sulle iniquità del mondo che li circonda. All’incirca, il racconto adulto degli Z è questo qui.

 

 

Siamo persino in grado di fare previsioni: secondo Nextatlas, la realness degli Z crescerà, nei prossimi sei mesi, del 32 per cento, mentre la fluidità di genere del 10 per cento. Indipendentemente dalla variabile pandemica, la stessa che, però, avrebbe inciso su questi fattivi ragazzini abbastanza da renderli tra i maggiori azionisti della bored economy e, come dimenticarlo, dell’aumento – “vertiginoso!” – delle risse in strada, segnalate in questi mesi da moltissimi giornali come la prova evidente del malessere dei ragazzi. Ricorderete che, qualche anno fa, gli adolescenti occidentali, di prima o di seconda generazione, erano tutti a rischio di radicalizzazione islamica, perché erano affamati di significato, perché volevano sentirsi importanti, coinvolti in qualcosa di grande e utile che li trascendesse. E poi? Puf. L’European union institute for Security studies ha reso noto questa settimana che l’Isis ha raccolto un esercito di ventisettemila ragazzi, quasi tutti minorenni, figli di terroristi e sostenitori di Daesh ancora detenuti in Siria, 600 dei quali sono cittadini europei. Non succede nelle periferie delle grandi metropoli, quindi ce ne disinteressiamo.

 

Quelle periferie, del resto, sono diventate nella peggiore delle ipotesi enclave che esistono per decomprimere la città, micronazioni governate dalla criminalità organizzata, e nella migliore delle ipotesi un luogo dell’anima, lo scenario della resilienza, degli ultimi che avanzano, del decentramento virtuoso, un posto che ferisce ma alleva, che tempra e salda, l’elemento biografico che aiuta un successo discografico e dà credibilità a un artista – Elodie, Speranza, Marracash, Massimo Pericolo: non ce n’è uno che sia nato o cresciuto dentro la ZTL. “Zero” gioca anche su questa retorica, racconta di un rider che s’innamora della figlia di un palazzinaro che ha messo gli occhi sul Barrio, e per liberarlo dagli immigrati e svenderlo, paga dei mercenari per renderlo insicuro, così da far allontanare, progressivamente, i suoi abitanti. Invece, Zero e i suoi amici sono una gang apparentemente minacciosa, simpatiche teppe che in testa non hanno che la salvezza del loro quartiere, e non per ragioni identitarie, ma perché vogliono essere eroi, alcuni protagonisti e altri comprimari, vogliono essere sia Batman che Robin, e aiutare le persone, ed essere amati: soprattutto, vogliono vivere in pace, a casa loro.

 

All’invisibilità in cui li releghiamo non reagiscono con rabbia, ma con astuzia e poesia. Non hanno nessuna delle preoccupazioni che, secondo quotidiani e analisi di mercato e indagini dell’A.I., animano e agitano i ragazzi della loro età. Succede perché la sociologia economica s’interessa solo dei figli delle classi medio alte e quindi non coglie, né misura il fermento dei figli degli altri, che però con quelli si mescolano, e vivono, e crescono, e lo fanno con un’armonia e una naturalezza che “Skam”, la serie tv su un gruppo di studenti di un liceo di Roma, ha raccontato splendidamente. L’esclusione sociale, il classismo, l’incertezza del futuro, la noia: questi elementi che un decennio fa motivavano rabbia, radicalizzazione, apatia, isolamento, cominciano invece a raccogliere un’opposizione vivace, fattiva – pensate a “Cara Italia” di Ghali, un pezzo che alcuni anni fa ci diede contezza delle seconde generazioni e di come fossero avanti nel processo di integrazione, nonostante l’ignavia parlamentare: “Quando mi dicon va’ a casa, rispondo sono già qua, io tvb cara Italia, sei la mia dolce metà”. Zero, il protagonista di “Zero”, fa il rider, è romantico, gentile, bellissimo, sogna di fare il fumettista e ha un superpotere: diventa invisibile. Sparisce quando ha paura, quando s’innamora, quando ha un orgasmo. I suoi amici gli insegnano a gestire questo prodigio al meglio di modo da servirsene per rubare i soldi che ridaranno la corrente al Barrio.

 

Si chiede: è meglio essere scambiati per quello che non si è o non essere visti affatto? È’ la stessa domanda che si pone la protagonista del romanzo “Chiaroscuro” (Feltrinelli) di Raven Leilani, quando capisce che per integrarsi, visto che è una giovane donna afroamericana, è obbligata a essere impegnata, militare nelle battaglie per la parità, far coincidere concretamente e in modo piuttosto invasivo il privato con il politico. Questo tratto è fortemente dissonante rispetto alla certezza dei numeri che vogliono descrivere questa generazione come un’alta schiera di Dreamers protesi verso la bella eticità: esiste un enorme numero di ventenni la cui preoccupazione politica non sta nello scegliere quale marca di jeans comprare sulla base dell’inclusività delle policy aziendali, ma nell’emancipazione dall’attivismo ridotto a status symbol e dall’omologazione e dall’obbligo all’esemplarità che ne conseguono. Il disco di Madame, in filigrana, contiene il desiderio di ripulitura da tutto questo, di purezza, di disinteresse: una rivendicazione di non conformità agli scopi che arriva (finalmente) proprio da una seguitissima rappresentante di quella generazione che nella coerenza (a volte ottusa) e nella coincidenza tra dire e fare, tra credere e indossare, ha fatto il proprio vessillo. Soprattutto, il disco di Madame è un’enorme richiesta d’amore, una lunga lettera d’amore. Così come “Zero” è la storia di una ricerca d’amore.

 

Alcuni mesi fa, a “Frontiere” di Rai3, la scrittrice Nadia Terranova ha detto: “L’infanzia e l’adolescenza non sono sempre esistite. L’infanzia è stata inventata nell’Ottocento: prima non c’erano bambini, c’erano solo piccole persone. È stata una bella invenzione, ma poi a un certo punto il mondo si è riempito di adulti che non erano mai andati via dall’infanzia, determinando un eccesso di attenzioni che si è concretizzato in un obiettivo preciso. L’infanzia s’è fatta monetizzabile, e poi lo stesso è capitato all’adolescenza e all’inizio dell’età adulta: questi processi sono andati di pari passo con una gestione del portafogli genitoriale, discostandosi da ciò che, in origine, aveva comportato la consapevolezza che un bambino, sia da un punto di vista sanitario che affettivo, ha un mondo diverso da quello degli adulti”. Lo dovremmo tenere presente ora più che mai, ora che ai ragazzini trasferiamo ogni nostra angoscia, ogni nostra premura, ogni nostro senso di colpa, ogni nostra lettura (iperlettura?) del presente. In quest’ultimo, ennesimo allarme psicologico del New York Times, quello del languore, c’è qualcosa che ha a che fare con la giovinezza da sempre: il vivere senza pensare al domani. Si tratta di una capacità negativa: “Essere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio, senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione”. Lo scrive John Keats, nel dicembre del 1817, poco più che ventenne, al suo amico Dilke, raccontandogli che quella è la virtù che fa grande uno scrittore.

 

Non è il trauma pandemico a far brancolare i ragazzini, o almeno non solo: è la giovinezza. Toccasana per grandi e piccini: “Io mi sarei pure stancata di sentirmi dire come sto. Piovono diagnosi. Ne hanno tutti una in tasca, pure io, confesso”. Parola di Ester Viola, e garantiamo che il disco di Madame ha lo stesso spirito. Lei, infatti, in “Babaganoush”, canta: “Scendo le scale una domenica di pioggia, per vedere dove mi porterà il vento, la tempesta mi fa rimanere, sotto casa mia hanno aperto un nuovo ristorante dentro e buonasera Salam aleikum uno shottino di rhum metto un disco di Googoosh, che cos’è, babaganoush?”. E qui c’è pure uno spettro ampio di abitudini culturali, per brand eventualmente interessati – lo Z non disdegna gli affari, mica è fesso.

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.