L'intervista della domenica

Con le migliori intenzioni 

Simonetta Sciandivasci

La militanza a destra, Raiuno, la famiglia tradizionale, Stalin sulla scrivania, la comunità, Taranto, la poesia, il feticismo delle giacche, l'eredità. Conversazione con Angelo Mellone

Parlo con Angelo Mellone per due ore e mezza e, quasi per tutto il tempo, lui non smette di fare clic con una penna a scatto. Ogni tanto si alza, cammina, salta sulla sedia, gesticola, mette i piedi sulla scrivania, poi li toglie subito e dice: scusi. Alle sue spalle ci sono libri, disegni, foto della Lazio, un cartellone con D’Annunzio e Marinetti. Sulla scrivania, invece, ha pupazzetti di Stalin, Trump, Hillary Clinton, un qualcosa del Chelsea, la Madonna Nera. È vicedirettore di Raiuno dall’anno scorso, per anni è stato responsabile del pomeriggio della stessa rete, dopo aver abbandonato la carriera universitaria perché s’annoiava. Ha prodotto ogni tipo di programma, ha scritto saggi di politica e sociopolitica, spettacoli teatrali, pamphlet, romanzi. Ha girato un documentario sul’Ilva. Ha insegnato comunicazione politica alla Luiss. È nato a Taranto, città dalla quale è scappato e nella quale, adesso, conta di tornare “a invecchiare e poi morire, davanti al mare”. È di destra, o qualcosa del genere. Il primo libro che citano, nelle sue biografie, è “Dì qualcosa di destra” (Marsilio, 2006), titolo rubato a una frase di “Caterina va in città” di Paolo Virzì. Il suo ultimo romanzo, “Nelle migliori famiglie” (Mondadori), dura una notte, racconta di una famiglia che s’era sfasciata dopo la morte di un figlio e si ritrova a unirsi quando l’altro figlio è in pericolo di vita. In esergo ci sono Loretta Goggi, Jesto, gli Stadio, Tosca. 

 

Avrebbe voluto fare il musicista? 

Suono il pianoforte da sempre. Ho avuto un gruppo, facevamo concerti dal vivo, poi ho dovuto scegliere tra le scienze politiche e i locali. 

 

E ha scelto scienze politiche? 

Sa, volevo scrivere. Cominciai a lavorare appena laureato, un’ovvietà che, raccontata oggi, sembra un privilegio. Mi concentrai sullo studio e il lavoro, capii che la musica avrebbe avuto un altro ruolo nella mia vita. 

 

Se ne è pentito? 

Per niente. Tutto quello che è affascinante a vent’anni, a quaranta diventa un incubo. È come in amore: cominciamo a odiare le persone per la stessa ragione per la quale ce ne siamo innamorati. 

 

Però ha scritto un romanzo che sostiene, in fondo, che l’amore può durare tutta la vita, abbastanza da tenere in piedi un matrimonio.

No, è il contrario. I protagonisti adulti del mio romanzo, una coppia altoborghese, sperimentano che l’amore possa contenere le condizioni della sua distruzione. Non sto con loro. Per me amarsi per tutta la vita è possibile e ho le prove. Conosco coppie di ottantenni che si tengono ancora per mano quando pranzano. 

 

Uh, che palle. 

Ma perché, scusi, se si amano? Beati loro.   

 

Ma lei perché difende la famiglia tradizionale?

Perché non mi pare che nessuno abbia ancora inventato un modello alternativo altrettanto valido. 

 

A parte il fatto che le famiglie felici non esistono, e infatti quella che racconta lei, perfetta, ricca e bella, si sfascia appena qualcosa va storto, davanti al primo grande dolore, si rende conto che forse non c’è un modello valido, un modo unico?

Se non ci fosse sarebbe un problema, perché devono esserci dei luoghi dove si crea e costruisce anche la nostra riproduzione, dove attraverso una precisa educazione sentimentale ci incarichiamo di un compito che va al di là dei nostri egoismi e che è quello di garantire la nostra riproduzione biologica. Detta così sembra una cosa brutta, ma non lo è. 

 

Invece è bruttina. In fondo, lei dice che abbiamo senso fintanto che si riproduciamo. 

No, io sto dicendo che l’uomo ha bisogno di comunità, e la comunità ha una dimensione non solo orizzontale, presentista, ma ha soprattutto una dimensione verticale, che unisce fra loro le generazioni e le epoche. La famiglia, per ora, con i suoi limiti e le sue storture, che non nego affatto (ma mi dica lei se esiste qualcosa di perfetto a questo mondo), soddisfa quel bisogno come nient’altro. 

 

Veniamo entrambi dal sud, sappiamo perfettamente che le famiglie sono soprattutto anti comunitarie, nuclei autarchici e spietati che badano in modo piuttosto meschino al proprio tornaconto e piegano tutto alla propria soddisfazione. Il familismo amorale non lo hanno inventato in Svezia, d’altronde, ma a casa nostra. A me piacerebbe vivere in un paese dove la struttura sociale fosse una enorme famiglia allargata, e chi non fa figli non rischiasse l’esclusione sociale. 

Lei pensa di dire una cosa di sinistra e invece è di destra, sa? Il tema comunitario è perso perché la sinistra liberal di oggi, ovverosia quello che è rimasto della rappresentanza dei lavoratori, si occupa di Amanda Gorman, non di quello che dice lei. 

 

E perché succede? 

Per senso di colpa. L’Occidente ha firmato la sua condanna a morte nel momento in cui ha pensato che fosse possibile espiare tutti i suoi errori, i suoi soprusi, le sue colonizzazioni. 

 

No, la prego, non cominciamo con il tramonto dell’Occidente. 

È tutto lì, però. Non abbiamo più il coraggio di difendere ciò che ci differenzia dal resto del mondo: la libertà di opinione ed espressione, prima ancora di quella economica, che può resistere anche in dittatura. 

 

Ma noi non siamo in dittatura.

Ma ha visto cosa stanno facendo a Philip Roth? La cancel culture è una forma di dittatura, un fenomeno violento e ignorante, estremista, una caccia alle streghe al contrario. Abbiamo fatto tanto per superare il confessionalismo e adesso torniamo indietro e lo facciamo guidati dalle cosiddette forze progressiste? 

 

Aspetti, una cosa alla volta, torniamo alla famiglia. Capisco quello che dice ma il suo libro ha un difetto significativo: per dire che la famiglia è la struttura migliore possibile, ne racconta una allo sfascio. Questo è tipico dei difensori dell’ordine tradizionale: dire che, quando si mette male, esiste un porto sicuro. È come dire che una pensilina è il posto migliore in cui stare perché ripara dalla pioggia. E quando non piove, che si fa? Come può ignorare che molte persone soffrano, all’interno della famiglia tradizionale, anche in condizioni normali? 

Mi perdoni ma è esattamente il contrario. È facilissimo andare d’accordo quando si è felici. Io ho raccontato due altoborghesi con personalità forti e complesse, che si conoscono da giovani, si innamorano immediatamente, fanno una famiglia e per anni vivono la storia che tutti vorremo avere.  

 

Tutti? Io no! 

 Va bene, diciamo quasi tutti? 

 

Diciamo qualcuno?

Va bene. Qualcuno. Guardi che se a me propongono un modo nuovo di costruire parentele e legami, un modo che funzioni meglio, sono felice. Per ora, però, non lo vedo, lo ripeto. Ad ogni modo, quei due altoborghesi implodono alla prima catastrofe perché non sanno affrontare il dolore insieme. Non superano la prova fondamentale delle relazioni: saper stare accanto all’altro quando tutto crolla.

 

Lei ha la testa dura.

Testa di rapa.

 

Le piace Dalla?

A chi non piace Dalla? 

 

Quella canzone dice “vorrei amarti anche qua nel cesso di una discoteca o sopra al tavolo di un bar”. 

Appunto. A me interessa questo: la capacità di amarsi comunque, indipendentemente dalle condizioni, avverse o favorevoli che siano. Credo che non possa prescindere da una scelta che, nel fare una famiglia, è inevitabile: rinunciare alla propria onnipotenza, pensare all’altro, sacrificare una parte di sé.

 

Allo scopo di? 

Di salvare la nostra civiltà. Anche.  

 

E lei è così certo che lo meriti? Magari dopo la nostra ne verrà una migliore. Se l’attuale scricchiola è perché qualcosa non va, non è mai andato, non va più. 

Può darsi. È finito l’Impero romano e il mondo è andato avanti lo stesso, ma io vivo qui e ora, sono nel mio presente, mi sento coinvolto nella mia civiltà e, fintanto che posso, voglio difenderla: se finisce, finisce il mio mondo. La fine di una civiltà produce una catastrofe e qui abbiamo gente incapace di rendersi conto che potremmo vivere non sempre in pace.

 

Perché la sua storia è ambientata in una famiglia altoborghese? 

Perché volevo che i miei protagonisti non avessero problemi economici o di altra natura a distrarli: volevo che si concentrassero soltanto sui sentimenti. 

 

Sa che tutti i romanzi che raccontano di famiglie come luoghi dove, alla fine di tutto, si sta meglio che altrove, sono sempre romanzi borghesi scritti da maschi? Le donne sono molto più critiche. 

Certo. E hanno ragione. Finora la famiglia ha funzionato sul presupposto che progetti e ambizioni delle donne fossero sacrificabili. Se riuscissimo a realizzare davvero una parità nella differenza, quella di cui parlavano le femministe degli anni Settanta, se l’Italia fosse un paese con un welfare sensato, crede che fare una famiglia non sarebbe un desiderio molto più diffuso? 

 

Non lo so. Lei come fa a dirlo? 

Lo presumo e insisto: chi ha scelto strade alternative, non mi sembra felice. Niente mi leverà dalla testa che la famiglia è diventata insostenibile perché è inconciliabile con l’egoismo.

 

E non crede che l’egoismo sia un diritto?

Sono terrorizzato da una società che pretende di trasformare ogni desiderio in un diritto. Volere qualcosa non accorda il diritto a ottenerla. 

 

E se io domani facessi un figlio da sola perché lo desidero? 

Ne faccia due, perlomeno! 

 

Prego?

Sono figlio unico e le assicuro che i fratelli sono importanti, dei fratelli non si smette mai di sentire la mancanza. 

 

Dice di essere un conservatore. 

Qualcosa del genere.

 

Cosa vuole conservare? 

La nostra storia nazionale, una società di appartenenza e identità. Per me il conservatorismo è come il dizionario: si può arricchire, può cambiare, ma non deve essere mai cancellato, non si deve mai pensare di archiviarlo. Ciò che c’era prima di noi non è migliore o peggiore: è semplicemente diverso. Mi terrorizza chi decide di eliminare questa diversità. E poi mi piace una definizione specifica di conservatore: colui che costruisce cose che valgono la pena di essere conservate.

 

Lei ha fatto il giornalista per anni, è stato inviato, ha scritto di costume, politica, ora vicedirige il canale più importante del servizio pubblico. Gli spazi del racconto, quindi, non le mancano. Perché scrive anche romanzi? 

Niente mi diverte più delle storie. Lo trovo molto più utile, persino terapeutico. Se tornassi indietro, sceglierei di fare lo scrittore e lo sceneggiatore, niente di più. Oppure farei l’inviato e basta, me ne andrei in giro con la mia macchina da scrivere. Ma non posso, ho scelto una strada diversa, e allora cerco di tenere insieme tutto. Nel 2010, al festival di Gavoi, un fotografo mi chiese una frase da inserire nell’opuscolo dell’evento, sotto al mio nome. Gliela diedi e poi la condivisi su Facebook: piacque molto, allora ci presi la mano, e scrissi a lungo dei post. Poi, il mio amico Andrea Di Consoli mi disse che quegli status avevano un potenziale letterario e drammaturgico e allora ci lavorai sopra e scrissi il mio primo testo teatrale, “Addio al sud”, che era in verità il primo atto di una trilogia che rappresentai a Roma, in una sala del teatro Argentina, e poi in tanti posti dell'Italia. Quel librino mi ha fatto scoprire il mio lato narrativo. 

 

Il suo lavoro le piace? 

Da impazzire. Racconto l’Italia, le comunità, la bellezza del nostro paese. Una volta scoprii, per un mio programma, che un paesino irpino, molti anni fa, in consiglio comunale votò a favore di una deviazione del Sele di modo che l’acqua andasse all’acquedotto pugliese, firmando così, di fatto, la sua condanna a morte. Ecco, per me questo è il significato profondo di comunità. E queste sono le storie che mi piace raccontare. 

 

Se domani le offrissero centomila miliardi per fare soltanto lo scrittore, accetterebbe? Mollerebbe la Rai?

Credo di no. Lavorare in solitudine favorisce la mitomania, la vanità. Quelli che scrivono e basta mi sembrano tutti incompiuti, nevrotici.

 

Anche lei è un po’ nevrotico.

È vero. Io sono multinevrotico. Ho una nevrosi per tutto quello che faccio, faccio più cose assieme così le diverse nevrosi si fanno compagnia.

 

 Scrive poesie? 

 Sì. L’ho sempre fatto, ma adesso di meno. Per questo amo scrivere per il teatro, che è poesia in prosa. 

 

Le dà una nevrosi anche la poesia?

Certamente. La nevrosi poetica deriva dal non capacitarsi del perché le proprie poesie non vengano apprezzate da tutto il mondo. 

 

Mi sembra vanitoso. Lo è?

In parte. Sono un feticista dell’abbigliamento, vicino a Taranto c’è la Valle d’Itria, con un distretto tessile tra i più importanti del paese. Io indosso soltanto abiti confezionati a Martina Franca, Napoli e nelle Marche. Rigorosamente no logo. 

 

Che rapporto ha con il potere? 

Non ci crede nessuno ma non me ne frega niente. O meglio: non mi interessa diventare potente. 

 

 Chi è potente? 

Chi può dire, domani mattina, senza preavviso: parto per un mese per la Polinesia, non cercatemi. 

 

E lei perché non può farlo? 

 Perché ho delle responsabilità professionali e familiari. 

 

Cosa non fa più da quando è diventato padre?

Cose rischiose. Da scavezzacollo.

 

Le mancano? 

Un po’ sì. 

 

Le hanno mai detto che lei è ipercinetico? 

Un mio amico psichiatra dice che dovrei smetterla di bere pure il caffè, visto che ho già un’energia incontenibile dentro di me. 

 

Da dove arriva? 

L’ho ereditata da mio nonno Felice. Mi diceva sempre, anche negli ultimi anni della sua vita: non voglio morire, ho tantissimo ancora da fare. 

 

E lei cos’ha ancora da fare? 

Devo vedere tutto il mondo che ancora non ho visto, girare l’America Latina in motocicletta con i miei figli, far capire a tutti che Taranto è la città più bella del mondo, comprare una masseria in Puglia, fare delle serie tv dai miei libri, “Fino alla fine” e “Nessuna croce manca”, che sono contigui e raccontano la militanza politica a destra, cioè qualcosa che non è mai stato raccontato e che, invece, merita una narrazione che annienti i pregiudizi. 

 

Lei è stato un giovane militante di destra? 

Sì. Vengo da quel mondo lì, da ragazzo ho scelto il Fronte della Gioventù per dare una casa alla mia voglia di anticonformismo, così ho conosciuto da vicino buona parte della storia della destra italiana, e infatti ci ho scritto sopra dei libri. Per me quegli anni sono stati una palestra di vita. Era un mondo strano, ci trovavi rivoluzionari e bacchettoni, sindacalisti anarchici e qualunquisti, tradizionalisti e futuristi, geni e fuori di testa, un piccolo mondo chiuso in sé stesso, a volte claustrofobico, ma affascinante.

 

Perché ha smesso? 

Perché la politica non faceva per me, ho capito che dovevo fare altro, mi sembrava chiaro che il mio impegno civile non dovesse esplicarsi nelle assemblee rappresentative ma nel mondo delle egemonie culturali.

 

Quel mondo che, però, detesta chi ha un passato come il suo. 

Che cosa triste che ha detto.

 

Però è vera.

Non sempre. Più che detestarti, alcuni fingono che tu non esista. Comunque, anche nell’industria culturale italiana è pieno di persone curiose, intelligenti, che se ne fregano delle etichette e che sono disponibili a un dialogo costruttivo, anche serrato. Io sono un libertario e un curioso: cerco interlocutori ovunque e ne trovo continuamente. 

 

Le sue posizioni non le sono mai valse uno stigma? 

 No.

 

Però spesso accade. Come mai? 

È un fatto storico, arcinoto, e riguarda le strategie di egemonia culturale. Poi, certo, uno pensa ai giganti intellettuali che stavano attorno al PCI, all’articolazione del pensiero cattolico e di quello nazionale, e sospira. Ora è tutto cambiato. La sinistra è rimasta il riferimento di chi vive dentro la ZTL e la destra, invece, prova a riempire il vuoto che ha lasciato. Credo che, soprattutto in futuro, la frattura non sarà tanto quella: ci sarà un gap generazionale che già comincia a palesarsi in modo molto drammatico. La lacerazione si determinerà, dopo quella tra centro e periferia, tra ragazzini e adulti. Gli adolescenti di oggi assorbono princìpi e valori trasmessi non da intellettuali, ma da influencer manovrati da aziende e brand. Ne derivano massimizzazione dei messaggi e appiattimento. Lo noti: c’è una grande attenzione per la diversità, per le minoranze, eppure attori, cantanti, scrittori, pensatori dicono tutti le stesse cose. Chi prova a introdurre un pensiero non conforme, rischia la carriera. Il punto è: dove sono finiti gli intellettuali? Oggi Pasolini verrebbe imbavagliato. E anche Oriana Fallaci. 

 

Lei crede che non si possa più dire niente? 

Mi sembra innegabile che si sia persa la capacità di comprendere e accettare visioni complesse e critiche. C’è un moralismo diffuso sui social network che soffoca qualsiasi contraddittorio. Si procede in modo giacobino a dire cose si può dire e cosa no, senza aspettare che la società provveda da sola, con il tempo, a dismettere vecchie abitudini culturali che non hanno più senso.

 

Mi fa un esempio concreto?

Un programma tv che fa il verso alle storpiature che gli stranieri fanno dell'italiano: non fa ridere, ma non va censurato o sanzionato. Quel tipo di umorismo è già giurassico, la storia e l’evoluzione provvederanno a eliminarlo. La maggior parte delle barzellette, anche le più atroci, che si raccontavano quando ero piccolo io, sono ormai archeologia. Questa idea del cancellare con la violenza della censura ideologica è figlia del senso di colpa occidentale ed è un tratto che, fuori dalle nostre società, non ha riscontro. Non esiste alcun principio di reciprocità: io che accolgo non vengo accolto altrove. 

 

A cosa servono i confini? 

 A tutelare gli spazi politici, che a loro volta garantiscono che l’autorità sovrana stabilisca leggi precise. Senza, non c’è che la legge del più forte. Per avere uno spazio politico, è necessaria una certa misura di omogeneità culturale, che serve anche come sostrato di una società multietnica.

 

Che tipo di scrittore è lei? 

Non lo so. Cinematograficamente, sono mucciniano. 

 

La violenza fa parte della sua storia politica? 

Quando ero un militante, i ragazzini intorno a me erano tutti bravissime persone. Ricordo qualche scaramuccia, ma niente di più. Del resto, quando io ero piccolo, ci si menava, tra maschi, anche per le ragazze. Per odiare la violenza, la devi conoscere. 

 

E lei la conosce?

 Certo. Sono cresciuto anche per strada, a Taranto. Ho fatto pugilato. 

 

Perché scelse proprio la destra? 

L'ho detto. Per ribellismo. La mia famiglia non era impegnata politicamente, ma di certo a casa mia non si respirava un’aria di sinistra. Mi avvicinai alla sezione perché andare a destra mi sembrava un gesto di scandalo. 

 

Era a suo agio? 

No. Ho sempre tribolato. Sono un irrequieto. Cambio idea, mi capita ancora. Da piccolo ero filoarabo, adesso sono filoisraeliano. Ho rivalutato Giovanni Sartori e Oriana Fallaci solo pochi anni fa, prima mi creavano imbarazzo. 

 

Era un bambino studioso? 

Ero un secchione e lo sono rimasto. Leggo tre libri contemporaneamente, ma questo lo faccio perché mi annoio facilmente. 

 

Che cos’è l’onore?

Rispetto dell'etica pubblica e della parola data.

 

Cosa si sente in dovere di offrire al pubblico della Rai? 

 Un servizio di qualità, ricco, onesto, plurale. 

 

Qual è il metodo migliore per insegnare qualcosa?

L’esempio. 

 

Cosa insegna ai suoi figli?

Che si deve lavorare moltissimo e che la competizione non deve mai farti commettere una scorrettezza. E poi ad amare l'Italia.  

 

La virilità esiste?

Eccome. Esistono gli uomini e le donne. Il maschile e il femminile. E sono felice di ridiscuterne continuamente i tratti, a patto di non arrivare mai alla loro abolizione. 

 

Si è fatto un’idea del perché siamo così tanto irritabili? 

Siamo ignoranti, prima di tutto. Secondo, gli intellettuali sono spariti, come dicevo. Terzo, il politicamente corretto ha azzerato il contraddittorio. Quarto, le forze progressiste sono diventate simili alla destra securitaria e reazionaria di un tempo: proibiscono, censurano, oscurano, aumentano l’allarme sociale. 

 

Crede che esista ancora una differenza tra sinistra e destra? 

 Su alcune cose sì. Credo soprattutto che quella differenza nasca dalla difformità che esiste tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica. Ecco perché ho deciso di lavorare nei media, per cercare di portare un’altra narrazione, un punto di vista ulteriore se non proprio alternativo. 

 

Ci va allo stadio?

Certo. Da sempre. Io in curva ho imparato che cos’è l’amicizia. 

 

 E cos’è?

 L’amore più grande di tutti. 

 

Mi dice una cosa che si può dire solamente in tarantino? 

 Sbonnata. Significa un tiro forte con il pallone.  

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.