(Lapresse)

La "nuova normalità" del dopo-Covid ha qualcosa di totalitario

Andrea Venanzoni

Le distanze, fisiche e digitali, il principio di precauzione e il trionfo della scienza. Non più la politica umanistica e ideologica ma la biopolitica delle competenze tecnico-scientifiche. I rischi di una discutibile tabula rasa dettata dalla pandemia

E’ stata citata in un report dell’Unicef del marzo 2021. L’ha evocata di recente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante una conferenza stampa. E’ apparsa persino sul sito web della Corte costituzionale, dove, alla voce ‘attività della Corte’, si legge che la pandemia la avrebbe imposta. Di cosa parliamo? Ma della ‘nuova normalità’, chiaramente. Affacciatasi prima timidamente, poi con intensità crescente, come una goccia che scava, è finita in mirabolanti funambolismi semantici sulle bocche di giornalisti, politici, intellettuali. Ma cosa è la nuova normalità? In realtà prima di rispondere a questa domanda andrebbe posta una questione, serissima, di stampo metodologico: l’assunto di partenza di questa normalità rigenerata, epifanica, nuova appunto, è una frattura, un moto di faglia squassante che avrebbe determinato un prima e un dopo la pandemia.

 

La retorica del "nulla sarà come prima" elevata a sistema. Come se il deflagrare del Covid non fosse altro che un meccanismo destinato a ripetersi da qui all’eternità, mutando solo nella intensità e nei toni. A dire il vero, che il Covid possa davvero essere ritenuto una Faglia di Sant’Andrea della civiltà umana, in grado di alterare per sempre la percezione spaziale e la mobilità, di circoscrivere e limitare in via permanente libertà costituzionali, è asserzione basata su evidenze tendenzialmente discutibili. Una previsione, come potrebbero essere quelle di segno contrario che però si rubricano in maniera frettolosa sotto la poco confortante locuzione di ‘complottismo’. Mentre, mi sembra, tutti quegli effetti esiziali sembrerebbero insorgere più che dal virus, dal modo in cui il potere statale ha deciso di strutturare il contrasto alla pandemia. Il punto è che, come scriveva Emil Cioran ne "La tentazione di esistere", non si può essere al tempo stesso normali e vivi.

 

In effetti la nuova normalità, e il potere che la sospinge, sembrerebbe cercare di sbrogliare questa alternativa, declinando il peso della scelta tutto a favore della normalità, e contro la vita. Perché presupposti fondanti e sostanziali di questa nuova normalità sarebbero l’elevazione del principio di precauzione a totem tribale, il trionfo della scienza e della tecnica sulla politica, il distanziamento sociale, la digitalizzazione sempre più radicale e totale, la salute diritto-tiranno chiamata a trionfare sulle libertà costituzionali. Ciascuno di questi presupposti ha una sua intrinseca matrice che mi sembra derivare da una peculiare concezione dell’aggettivo "nuova": nuovo, in fondo, era l’uomo dei totalitarismi, l’uomo bonificato da quelli che erano percepiti come vizi della società borghese, un individuo vergine di cultura e di diritti da edificare poi ex novo.

 

Precauzione e salute elevati sul piedistallo dell’assolutezza sono strumenti pericolosi, capaci di riespandere quel potere fagocitante che Schmitt definiva ‘tirannia dei valori’, una palude porosa destinata a macinare tutto: d’altronde il rischio, ce lo ricorda anche Ulrich Beck, è una condizione strutturale del contingente, altro che ‘rischio-zero’.


E trovo pericoloso che a questa narrazione, sia pure con diversità di sfumature e significati, possano aderire anche organi costituzionali visto che all’esito della accettazione della sedicente novità, di questa normalità di rottura, c’è il rimescolamento delle dinamiche garantistiche determinate dal nostro sistema delle fonti del diritto, dai meccanismi decisionali e di rappresentanza, dalla idea che della libertà, tutto sommato, si possa fare a meno o se ne possa godere in maniera limitata. Come fosse una mera ora d’aria graziosamente concessa

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