(lapresse)

Schumpeter e il rischio del navigare

Lo spirito borghese, dualismo fra razionalità e audacia destinato a esaurirsi

Michele Silenzi

La distruzione creatrice della borghesia come accettazione del rischio di navigare e di trascendersi, fino ai confini ultimi, fino all'esaurimento

Sopra la porta di una casa di grandi commercianti di una città anseatica sta scritto “navigare necesse est, vivere non necesse est”. Ce lo racconta Schumpeter nel suo insuperabile “Capitalismo, socialismo e democrazia” per stringere, in una sola frase, tutto lo spirito della borghesia. Coraggio, senso d’avventura e d’impresa, rischio, audacia, e ragione. Una casa borghese anseatica che subito è Thomas Mann e Buddenbrook e trionfo e caduta della borghesia; e poi Hans Castorp, che va a chiudersi al Berghof sulla montagna magica perché non sa bene cosa fare della sua vita, gli sembra così poco diventare semplice ingegnere, allora meglio il nulla del sanatorio, di una malattia latente per anni senza tempo, fino allo scoppio della guerra in cui risvegliarsi, inabissarsi e annullarsi. Mann descrive profeticamente quello che Schumpeter, qualche anno dopo, fa in maniera analitica, la fine della borghesia che coincide con la percezione della fine della sua missione storica. Di una borghesia che perde fede nel suo stesso credo.

 

La distruzione creatrice è questo credo più o meno conscio che si risolve in una dialettica tra sicurezza e pericolo che porta a qualche cosa di superiore, di accresciuto, a colossale miglioramento delle condizioni di tout le monde. Commercio, traffici internazionali, caduta delle frontiere, mari e tempeste affrontati e vinti, spinti dall’audacia del profitto e dalla speranza, qualora si morisse, di essere ricordati da famiglia ed eredi per quella stessa audacia che spinge sempre l’uomo là dove Dio non vorrebbe che si metta. E’ questo rischio, un rischio del navigare che ama infinitamente la vita non come rischio nudo ma come essenziale audacia e libertà creatrice pronta però a distruggere se stessa pur di realizzarsi. L’essenza dello spirito della borghesia. Quello spirito che attira l’ammirazione luciferina del suo più grande nemico, Marx, per cui la borghesia “ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate”. Ma il pericolo, il rischio, è in tutto questo. E il rischio è sempre irrazionale, deve essere corso senza pensarci troppo, accettandolo per quello che è, parte endemica, essenziale, indispensabile di ogni dialettica esistenziale produttiva. Razionalità del processo e della sicurezza, volontà di rischio e audacia irrazionale. L’opposizione di questi due fattori genera la scintilla della potenza borghese. Spento uno dei due termini del discorso, la scintilla non può più generarsi.

 

Per Schumpeter, la fine di questo dinamismo è iscritto nel Dna stesso del processo. Non se ne possono elencare qui tutti i passaggi storici ed economici; ma la ragione strumentale, il processo di razionalizzazione centrale alle fortune della borghesia, come in una malattia autoimmune, si rivolge contro quello stesso sistema che in modo decisivo ha contribuito a creare. Quella forza liberatoria che con la sua capacità di analisi ha sollevato il mondo da una condizione misera alla fine tende a distruggere la sua creazione più straordinaria. “Il capitalismo genera una forma mentis critica che, dopo aver distrutto l’autorità morale di tante altre istituzioni, si rivolge in ultimo contro le proprie”. Annichilita ogni tensione spirituale dal processo di razionalizzazione, anche i valori dell’audacia e del rischio, termini negativi ma vitali della distruzione creatrice, vengono dichiarati irrazionali, da schivare e infine rigettare. Schumpeter vede emergere dopo l’èra borghese una qualche forma di socialismo, sulla cui natura però è lecito dubitare. Nel suo ultimo grande romanzo, il “Doctor Faustus”, Mann prelude a qualcosa di simile: “Un giorno la terra intera sarà sottoposta all’amministrazione economica universale e avremo la completa vittoria del collettivismo – ebbene, in tal modo scomparirà la relativa insicurezza dell’uomo che la catastrofe del capitalismo tiene ancora in vita, e dunque scomparirà l’ultimo residuo ricordo della minaccia cui è sottoposta l’esistenza umana e, con esso, ogni problematica spirituale. C’è da chiedersi a che scopo vivere ancora…”. Forse, si potrebbe rispondere, per l’unica cosa che rimane, ovvero per la sicurezza assoluta e la salvaguardia di tutti coloro a cui non è garantita sicurezza assoluta. Per l’uomo ridotto a vittima. Ma non sembra questo uno scopo da regno divino, uno scopo da fine dell’uomo?

 

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