Amanda Gorman (foto Ap)

il foglio del weekend

La poesia delle catene

Simonetta Sciandivasci

Per trasformare in altra lingua le opere della poetessa afroamericana Amanda Gorman serve davvero essere lei?Il tormento della traduzione nell’èra della suscettibilità, tra operazioni di marketing e incontro magico delle parole

Molto di più di cosa viene detto, conta chi lo dice. L’identità offusca la sostanza. Puoi parlare di minoranze se fai parte di una minoranza, puoi rappresentare un dolore se lo hai provato: è importante che quello che fai coincida con quello che sei e hai vissuto. Identità ed esperienza delimitano il tuo campo d’azione, e succede proprio nel tempo che vuole allargare i criteri che l’identità la definiscono, in certi casi fino ad abolirla.

“Un giorno abbiamo deciso che non eravamo più in grado di capire nulla che lo scrittore non avesse provato personalmente, di credere a nulla che non avesse vissuto, di accettare nulla che non fosse l’io. Non l’io narrante: l’io e basta”, ha scritto Guia Soncini. Un’attrice cisgender non può recitare la parte di un transessuale e deve prima rinunciare al lavoro e poi scusarsi per averlo accettato. E’ successo a Scarlett Johansson. Una scrittrice bianca americana scrive un romanzo sui migranti messicani e viene minacciata di morte e botte e persecuzione al punto che la sua casa editrice annulla il tour di presentazione del libro, si scusa per “le gravi inadeguatezze con cui ci approcciamo alla questione della rappresentazione”. E’ successo a Jeanine Cummins. Un traduttore bianco viene ritenuto inadatto a tradurre i versi di una poetessa nera. E’ successo a Marieke Lucas Rijneveld, scelto dalla casa editrice olandese Meulenhoff per tradurre Amanda Gorman, la poetessa ventiduenne afroamericana che ha recitato la sua “The hill we climb” alla cerimonia di insediamento di Joe Biden, sesta poeta della storia a prendervi parte. Ed è successo a Victor Obiols, poeta e musicista, bianco, sessantenne, scelto dalla casa editrice Univers di Barcellona per tradurre Gorman in catalano: dopo aver consegnato il lavoro, è stato rimosso dall’incarico.


“Cercavano un profilo diverso. Ma allora non posso nemmeno tradurre Omero perch. non sono un greco dell’ottavo secolo”


Rijneveld era stato approvato entusiasticamente da Gorman: ha ventinove anni, è pluripremiato, non si dichiara né maschio né femmina. Tuttavia, secondo l’attivista e giornalista Janice Deul, l’editore avrebbe dovuto scegliere qualcuno che fosse più capace di entrare nel mondo di Gorman, avendolo esperito e portandoselo addosso: qualcuno che fosse, come lei, Unapologetically Black. Così ha scritto Deul su Volkskrant, innescando una reazione a catena che ha convinto Rijneveld a rinunciare all’incarico di sua iniziativa. Obiols, invece, è stato liquidato dalla stessa casa editrice che gli aveva affidato il lavoro. Ha detto all’Afp: “Non hanno messo in dubbio le mie capacità, ma cercavano un profilo diverso: una donna giovane, attivista, preferibilmente nera. Ma allora non posso nemmeno tradurre Omero perché non sono un greco dell’ottavo secolo”.

E’ un esempio logico, questo di Obiols, ma semplicistico: trascura che l’universalità, che giustamente rivendica, non sarà ovvia fintanto che nessuna identità, nuova, antica o di là da venire, sarà discriminata (sarebbe bello poter contare sulla forza di ciascuna identità di non sentirsi discriminata, ma le nuove generazioni ci dicono che non basterebbe, e amen). La parola tradotta è inevitabilmente manipolata e manomessa e il fascino della traduzione sta nell’incontro tra traduttore e tradotto, nella loro fusione impossibile, nella scelta, sempre problematica, che un traduttore fa di scomparire dal testo che traduce o, invece, di addensarvisi; di adattare il testo al tempo in cui viene tradotto o lasciarlo incontaminato. Intraprendere una o l’altra strada non è per forza una questione di sensibilità personale: a volte è un fatto formale, altre di necessità. Nell’introduzione alla sua traduzione del “Finnegans Wake” di James Joyce, Rodolfo Wilcock scrisse: “Essendo quest’opera quasi interamente scritta con parole inventate, di tre, quattro, cinque perfino sei sensi, la sua traduzione in una qualunque lingua è impossibile. Abbiamo scelto soltanto i brani meno difficili, avvertendo però che buona parte dei molteplici sensi del testo originale sono andati perduti nella traduzione”.

Nel 2002, Marco Sonzogni, traduttore e professore di Translation Studies e Italian Studies alla Victoria University di Wellington, scrive a John Updike e gli propone di fare una traduzione di “Egloga” di Eugenio Montale. Updike ci pensa, si strugge, e poi gli spedisce la traduzione, cui allega una lettera nella quale scrive: “Sospetto che tradurre Montale in inglese sia come tradurre Robert Frost in italiano. Il tono si perde”, e aggiunge di essere certo che la sua traduzione sia imprecisa, inadatta, pur essendo lui stato un ragazzo di campagna e avendo quindi esperito ciò che Montale descrive in quella poesia.


In Italia, Garzanti ha affidato la traduzione di Gorman a Francesca Spinelli, giornalista di Internazionale esperta di immigrazione


 

E’ all’incirca l’opposto della posizione su Gorman: il fatto che io abbia esperienza non significa che io abbia le parole per dirla. Updike vede nella lingua la faglia, la distanza incolmabile. E la accetta: fa parte del gioco. Dice: sto certamente fallendo. E’ questa ipotesi di fallimento che sembrano non calcolare i detrattori dei traduttori non a immagine e somiglianza di Gorman. Perché la poesia di Gorman non è poesia: è un manifesto. Chi la traduce non è chiamato ad affrontarla ma a potenziarne l’autrice, affratellandosela. In Italia, Garzanti ha affidato la traduzione di Gorman a Francesca Spinelli, giornalista di Internazionale esperta di immigrazione. Martina Testa, traduttrice ed editor di Sur, dice al Foglio: “Mi pare che sia stata mescolata un’operazione letteraria con un’operazione d’immagine. Questa su Gorman è una campagna pubblicitaria sulla quale mi colpisce che l’editor di Garzanti non dica niente, non spieghi per quale motivo sia importante leggere una poesia che abbiamo ascoltato in televisione e letto su internet, dove è reperibile da tre mesi. Questa confusione di piani concorre a creare un caos cognitivo tale per cui non si capisce la differenza che c’è tra il marketing dell’identità e la diffusione letteraria. Io traduco autori neri da vent’anni e se mi è chiaro che un testo è frutto dell’identità di un autore, che come ogni identità è composita, mi è altrettanto chiaro che si traduce il testo e non il vissuto del suo autore. Mi sembra assurdo dover fare questa specificazione, ma la persona più adatta a tradurre un testo si misura su quello che il testo dice e sulla sua lingua”.

Dire che i neri scrivono o traducono diversamente dai bianchi ha un qualche senso? “Prima di tutto c’è da capire chi sono i neri e chi sono i bianchi. Ci è stato insegnato che le razze non esistono, la bianchezza e la nerezza le usiamo come usiamo altezza e bassezza: si tratta di categorie poco definite da tutti i punti di vista, ontologico ed epistemologico. Mi risulta più serio e oggettivo parlare delle caratteristiche linguistiche del testo. Nel caso di Gorman, non c’era niente che rispecchiasse un preciso consesso linguistico di difficile comprensione per chi non ne fa parte. In questo caso, nessuno sta dicendo davvero che i neri li possono tradurre soltanto i neri ma che per Gorman ci voleva una persona che fosse donna e nera. A me può sembrare assurdo visto dalla mia prospettiva ma magari a una poetessa nera olandese no: per lei far tradurre Gorman da una olandese nera è un modo per esercitare una forma di rappresentanza della sua comunità”.


“E’ stata mescolata un’operazione letteraria con un’operazione d’immagine”, dice Martina Testa, traduttrice ed editor di Sur


 

I giornali hanno decentrato il punto? “Non è né utile né vero dire che si è diffusa l’idea che i neri non possono tradurre i bianchi e viceversa. Piuttosto, bisognerebbe dire che le case editrici italiane non dovrebbero fare costosissime operazioni di marketing su una poetessa nera che non racconta niente della condizione dei neri e che, invece, si limita a dire a Biden: che bello, abbiamo sconfitto Trump. Le politiche di inclusione e di diversity sono un fatto serio e delicato, ma non è un’operazione di diversity dare una traduttrice nera a un’autrice nera, se il contenuto di quella autrice non è linguisticamente caratterizzato dall’appartenenza a una specifica comunità di persone di colore. Se pubblichiamo solo e soltanto libri che propongono testimonianze e mai che coltivano l’immaginazione, teniamo da parte un mondo, non rappresentiamo che una parte della realtà. In America ho l’impressione che sempre più autori scrivano perché credono di avere una storia da raccontare, una storia che aiuterebbe a migliorare la rappresentazione della propria comunità, ma il rischio è che lo facciano in modo standardizzato”. Quando chiesero a Nabokov come avesse lavorato alla traduzione dell’Eugenio Onegin di Puskin, disse: “Tra rima e ragione, ho scelto la ragione. La mia unica ambizione è stata quella di fornire una guida, un bigino, una traduzione letterale, fedele fino al servilismo”. Il nostro è un tempo diverso, i traduttori sono sempre più riconosciuti, la personalizzazione è un costume culturale universale: vale ancora l’idea che un traduttore debba scomparire dal testo? “Per me sì. Se si capisce che una traduzione è mia, significa che ho lavorato male. Mi è capitato proprio per questo di chiedere di tradurre sotto pseudonimo”. Dice al Foglio Fabio Pedone, traduttore: “Tradurre è confrontarsi di continuo con paradossi e arrischiati passaggi; è una pratica lontana da ogni tipo di dogma, e che si reinventa sempre. Trovo curiosa l’idea che debba esistere un diritto preventivo a tradurre qualcuno, ma non è questo il perno del caso Gorman. Chiunque, una volta asseverate le sue competenze, dovrebbe poter tradurre i testi di chiunque: soltanto dal risultato si misurerà il valore del suo operare. Anche perché non traduciamo persone, ma testi. Altro è il discorso quando, come in questo caso, la visibilità dell’autrice è inscindibile dal messaggio che lancia nei suoi testi. Allora, a me pare, si chiede a chi deve tradurre (compito che mira a una neutralità ideale, il che non vuol dire sia privo di autorialità) di condividere o incarnare lo spazio di visibilità di Gorman anche nella cultura ricevente, in modo da accendere un faro ulteriore sul razzismo presente nella società olandese nei confronti delle voci non bianche. Quando al centro c’è la pratica paradossale del tradurre, è lo spazio della differenza, dello spaesamento, ad aprire nuove possibilità di ‘parlare l’altro’, di ricrearlo in un’altra voce che ne segua le tracce. Se invece il filo che corre sotto queste scelte è quello della visibilità, allora si cerca la sovrimpressione, si invoca la somiglianza, per affidare anche all’identità di chi traduce la giusta missione sociale di cui è investita l’autrice nel proprio spazio culturale”. E lo spazio culturale del traduttore, a cosa corrisponde? E’ un’ombra?


In Giappone, al “Finnegans'Wake” ci hanno lavorato in tre: il primo, morto, il secondo, impazzito. Eroi non denunciati, anche loro


 

Dice Martina Testa: “Rispetto a quando ho iniziato io, mi sembra che le cose siano migliorate, esiste un sindacato, si è finalmente capito che le traduzioni sono prestazioni che vanno regolate da un contratto. Ed è un bene. Mi lascia invece perplessa un’altra tendenza, e su questa sì che vorrei che esistesse una discussione seria, anche accesa: sempre più spesso le traduzioni non vengono affidate a un singolo professionista ma a un service. Un libro come quello di Edward Snowden, importante e bello, in Italia è stato tradotto da un service: eppure è un libro con una sua dignità letteraria, Snowden si è fatto aiutare da uno scrittore molto quotato come Joshua Cohen, e da noi è stato rifilato a un’agenzia. Ed è lì che io vedo l’abuso sul traduttore, la magagna che mi fa suonare il campanello d’allarme e mi mostra l’abuso sulla figura del traduttore, che è un abuso non denunciato, assai più interessante di questa caciara furbona su Gorman”. In Giappone, al Finnegans Wake ci hanno lavorato in tre: il primo è morto, il secondo è impazzito. Eroi non denunciati, anche loro.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.