il foglio del weekend

Una vita posticipata

Simonetta Sciandivasci

È passato un anno e niente è andato come avrebbe dovuto. Rimandiamo appuntamenti, date e incontri senza credere che li recupereremo. Non siamo più preoccupati, forse nemmeno spaventati: ci siamo arresi

Domani è un altro rimando, un nuovo rinvio, un appuntamento che salta e che non recupereremo più perché ci passerà la voglia, lo sfizio, la fantasia. La cosa che abbiamo fatto di più, in quest’anno manicomiale, è stata posticipare. Un anno fa, un anno esatto, posticipavamo con date precise, dicevamo che avremmo recuperato in estate, in settembre, in maggio, a fine lockdown e, tuttavia, nell’attesa, fabbricavamo surrogati, facevamo i concerti sui balconi, le piscine nelle vasche, le feste su Zoom, certi che l’originale fosse a un passo da noi.

 

Non volevamo perderci niente, non volevamo rinunciare a niente, eravamo ancora abituati a essere come siamo stati negli ultimi duecento anni e passa, dalla prima rivoluzione industriale in avanti: veloci, in corsa anche al traguardo, affamati anche da sazi, succubi dell’istantaneità.

  

Tutto aveva una vita momentanea, niente era pensato per durare: i vestiti, i mobili, la pausa pranzo, il posto di lavoro. Avevamo disposto il suffisso fast davanti a moltissime cose perché ottenere tutto e subito, di modo da riempire gli spazi, i vuoti, le ferite, i gap, in modo più o meno efficace ma sempre, irrimediabilmente fittizio, era l’obiettivo dell’umanità e, soprattutto, il suo ritmo.

 

Mangiavamo velocemente per non perdere tempo, non farci fregare nessuna possibilità, essere pronti a scattare via, ad accumulare eventi, presenze, partecipazioni, fotografie, biglietti vidimati. Compravamo vestiti da niente anche se potevamo permettercene di migliori perché ci piaceva l’idea di cambiare guardaroba ogni mese, ogni settimana, ogni giorno. I vestiti da niente erano sempre pieni di lustrini, guizzi, bizzarre fantasie, di modo che tutti, ricchi, poveri, modesti, potessero concedersi un lusso, non importa se finto, che durasse un giorno, una sera. 

 
Non sapevamo aspettare, ci mettevamo in fila di notte davanti alle Feltrinelli per comprare l’ultimo libro di J.K. Rowling, davanti agli Apple Store per comprare l’ultimo modello di iPhone, terrorizzati alla sola idea che le scorte andassero esaurite e ci toccasse rimanere a mani vuote per 24 o 48 ore. 

 
Vivevamo come la candela in una poesia di Edna Millay: bruciando da due lati, sicuri di non durare l’intera notte.
Quando è arrivato il Covid, avevamo appena cominciato a correggere tutto lo spreco che conseguiva a questo pensiero così irresponsabile e incurante del futuro, peraltro con risultati piuttosto modesti, a volte anche grotteschi. 

  
Una cosa che abbiamo cominciato a fare, negli ultimi mesi, è stata rinunciare. Il nuovo lockdown è alle porte, che sarà come il primo è improbabile, ma forse proprio per questo sarà persino peggiore, e da giorni ci telefoniamo per dirci, senza troppo entusiasmo, ridendo nel pianto: ci vediamo per l’ultima volta? 

  
Abbiamo accatastato una mole incredibile di sacrifici, rinunce, posticipi e sono stati tutti più o meno inefficaci, almeno rispetto all’obiettivo, forse infantile, di tornare il prima possibile alla normalità – ma quale normalità? Bandire l’autunno non è servito a liberare il Natale e allora abbiamo bandito il Natale per liberare l’anno nuovo e naturalmente non è servito e adesso bandiremo la Pasqua e nessuno si chiede se servirà o meno, quando e se la recupereremo, quando e se tutta la vita sospesa, accantonata, messa in stallo ci verrà restituita, e se avremo modo, tempo, forza, salute per farlo. Nessuno pretende certezze. Nessuno s’arrabbia più. Certo, qualche studente ogni tanto sciopera, qualche genitore scrive lettere di protesta, i musicisti fanno concerti in streaming senza suonare, ma di fondo, e di fatto, nessuno crede più a niente, nessuno s’impegna per un futuro preciso, siamo tutti cauti, spenti, ridotti, depressi. 

 
Non ci arrabbiamo perché per arrabbiarsi ci vuole speranza. Lo diceva Seneca: gli irosi hanno una fiducia profonda nelle possibilità, è per questo che si arrabbiano quando per colpa di qualcuno non vengono realizzate, perché sanno che è possibile farlo. Noi non vediamo lo scintillio della chance. Il fatto che il mondo si stia vaccinando e però, nello stesso tempo, i contagi abbiano raggiunto, talvolta superandoli, i picchi dell’anno scorso, ha spento tutte le luci, ci ha spediti in letargo. La Danimarca ha sospeso la campagna vaccinale per casi di trombosi e questo sì che potrebbe rivelarsi un disastro e in fondo, nemmeno troppo in fondo, a questa ennesima mortificazione della speranza eravamo pronti, come lo siamo per tutto, non aspettandoci ormai più niente di definitivo, risolutivo, salvifico.

 

E’ passato un anno e niente è andato come avrebbe dovuto, non ci siamo fatti mancare un errore, un intoppo, un imprevisto prevedibile e uno imprevedibile. Il lato più difficile della vita, la sua imprendibilità, ci si è mostrato, selvaggio e irrispettoso, diavolesco, facendoci la linguaccia, tutte le volte che abbiamo avuto la sensazione di aver ripreso il controllo. E’ successo decine di volte in una manciata di mesi. 

 
E allora a quel messaggio, a quella richiesta di vederci questo fine settimana prima che tutto chiuda di nuovo, risponderemo, assai probabilmente, che preferiamo starcene a casa. Perché è vero: lo preferiamo. Non vogliamo un’altra illusione, un altro boccone, che senso ha vivere a tratti, andare a baciarci al parco prima che chiudano i parchi così da procurare ulteriore vividezza a una nostalgia che ci piomba addosso ogni giorno, ora che le foto che pubblichiamo su Instagram non sono che ricordi di cosa facevamo dodici, tredici, ventisette mesi fa oppure avvilentissimi ritratti di famiglia in un interno. 

  
Diremo: devo lavorare. Diremo: vedrai che non ci chiudono, e comunque potremo sempre vederci a pranzo in settimana. Avremo sempre i pranzi. Forse. O forse ci leveranno anche quelli. O forse saremo noi a levarceli, a starne alla larga, come fanno i depressi con tutto ciò che vorrebbero disperatamente. Diremo: poi. Diremo: non è il momento. Diremo: ci saranno occasioni migliori. E ci verrà in mente “Se me lo dicevi prima” di Enzo Jannacci, quando fa “Eh, se me lo dicevi prima, ma io ho bisogno adesso, io sto male adesso, eh io ho bisogno di lavorare adesso, io sto male adesso, sto sempre male adesso, sto bene e sto male, il lavoro mica è il lavoro, posso mica spedirti un charter, bisogna saperlo prima che dopo non c’è lavoro, capito, eh?”. E ci faremo molta compassione, forse anche pena, perché è vero, abbiamo bisogno adesso di uscire, di lavorare, di scopare, di amare, di vivere, di respirare senza mascherina, di mangiare senza lavarci le mani, di tenerci dalla schiena e noi dai gomiti e però non riusciamo a prenderci nemmeno un surrogato, non vogliamo fare scorta di passeggiate, gelati, pranzi, tramonti, preferiamo restare disillusi e fermi. Non vediamo i risultati del vaccino, né quelli di Draghi, né quelli di Sanremo. Cazzo, non funziona niente. Per ora. Ma ora è tutto. Abbiamo soltanto l’ora. Che ora è? Che giorno è? Che anno è? 

 
Rimandiamo a data da destinarsi, senza più credere al destino, alla direzione, al senso. Lo facciamo per buona educazione, diciamo “un’altra volta”, pensiamo “mai più”. 

 
Non siamo più preoccupati, forse nemmeno spaventati: siamo arresi. E’ una resa che confondiamo con l’attesa o forse è il contrario, speriamo che sia il contrario. E’ marzo. Emily Dickinson scrisse che marzo è un mese di attesa: “Le cose che ignoriamo e le persone del nostro presagio sono in cammino. Ci sforziamo di fingere fermezza come si deve, ma la gioia solenne ci tradisce, così come ci tradisce il giovinetto appena fidanzato”. 

 
Il solo pensiero di un presagio in cammino verso di noi ci fa accapponare la pelle. Facciamo i tarocchi, abbiamo amiche molto esperte: ci dicono che accadrà tutto in estate, l’amore, l’assunzione, la pace, la tregua. Ci crediamo senza voglia. Mettiamo una musica leggera perché  abbiamo voglia di niente, e in fondo speriamo che le persone del nostro presagio siano in cammino esclusivamente per recapitarci i corrieri di Amazon, in questa casa tutta da bruciare. 

 
Giovedì l’Istat ha diffuso i dati sulla speranza di vita degli italiani: nell’ultimo anno si è ridotta di quasi due punti. Nel 2019 vivevamo 83 anni in media e nel 2020 non abbiamo superato gli 82. Il Corriere ha scritto: “L’evoluzione positiva della speranza di vita alla nascita tra il 2010 e 2019, pur con evidenti disuguaglianze di genere e geografiche, è stata duramente frenata dal Covid-19, che ha annullato, completamente nel Nord e parzialmente nelle altre aree del paese, i guadagni in anni di vita maturati nel decennio precedente”. Anche l’ultima certezza occidentale è stata sbrindellata, persino la vecchiaia si è accorciata. E’ devastante.

  
Ci fa fatica comunicare le cose buone, le cose cattive, tutte le cose: ci fa fatica comunicare. Vederci. Incontrarci. Non vogliamo correre il rischio di ritrovarci a parlare di quello che faremo quando tutto riaprirà – quando riaprirà? 

 
Non vogliamo correre il rischio di avere a che fare con un ottimista tossico, uno di quelli con l’arcobaleno in faccia, le prossime vacanze già decise, le certezze già scolpite, uno di quelli che è certo che ne stiamo uscendo e che nel 2022 saremo migliori e che il pil effettivamente crescerà più di quello della Germania e che il recovery plan sarà meglio del Piano Marshall e l’Italia diventerà uno zaffiro e saremo tutti più tonici e freschi e ricchi e operosi e buoni e solidali. 

 
L’altro giorno  la Bbc scriveva di star lontani dagli ottimisti tossici (c’è una tossicità per tutto), perché sono incapaci di accettare le sconfitte, perché ti fanno sentire in dovere di riprenderti immediatamente, ti incalzano, ti rintronano con parolacce insopportabili come resilienza e trasformazione e bruco e farfalla e yoga, ti dicono che tutto questo dolore un giorno ti sarà utile. La sola cosa da fare, in questo momento, è accettare la perdita, il dolore, il vuoto, il lutto, l’orrore, ed esibire quello che la Bbc chiama “tragico ottimismo”. Il tragico ottimista (TO) non farà scorta di pic nic al lago questo fine settimana, non s’aspetta un Piano Marshall, non crede che Draghi farà dell’Italia un paese Covid-free, né che Letta farà alla sinistra quello che Sofia Loren, Marcello Mastroianni e Vittorio De Sica hanno fatto al cinema italiano. Il TO aspetta, piange, calcola i danni, li pesa, soppesa, proietta: se ne figura di nuovi. Ma sa che finirà. Il TO è un verso di Motta sui trentenni di ieri, quando il Covid non c’era e si potevano mangiare le fragole senza disinfettarsi le mani (bastava lavare le fragole): “Non ridere e non piangere, non stringermi le mani, siamo sporchi, siamo umani, prima o poi ci passerà, la luna che ci insegue in fondo alla salita costruiamoci una casa prima o poi ci passerà”. E ancora: “Ritroviamoci per strada per urlare il nostro nome, con quel poco che rimane, fra milioni di persone”. Non ce lo dimentichiamo, di ritrovarci per strada: prima o poi succederà. 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.