Otto Albert Koch, La battaglia di Teutoburgo , 1909 (Wikipedia)

Tacito fa paura

Michele Magno

Così un libretto etnografico sulle tribù germaniche si trasformò nella bandiera dei nazionalisti e segnò il destino del popolo tedesco

Può un pamphlet di quaranta paginette segnare il destino di un popolo, e influire profondamente sul corso della sua storia? Se si esclude il Manifesto del partito comunista di Marx, forse pochi altri hanno lasciato un’impronta tanto marcata quanto la Germania di Tacito (98 d.C). Nato come libello polemico in cui il pupillo dell’imperatore Vespasiano descrive vizi e virtù delle tribù nordiche insediate ai suoi tempi nelle terre attorno al Reno, per circa due millenni ha conosciuto innumerevoli versioni, antiche e moderne. Da ultimo, il filologo classico Dino Baldi ne ha pubblicato una nuova traduzione, impreziosita da un denso saggio critico dallo stile limpido (Quodlibet, 512 pp.,19 euro, ottobre 2020).

 

Considerato ingiustamente, insieme all’Agricola e al Dialogus de oratoribus, tra le opere minori dell’autore degli Annales, l’opuscolo del patrizio romano è una monografia etnografica in cui all’elogio di una stirpe indomita si alterna la condanna della decadenza morale e politica dell’età imperiale. Tacito, sostiene Luca Canali nella premessa alla sua traduzione (ristampata dagli Editori Riuniti), “affascinato e insieme spaurito da quell’intatto patrimonio di energie vitali, dovette pensare che un tale incombente pericolo per l’Impero doveva essere illustrato in una unitaria e breve, ma pregnante opera, che ne illustrasse i contenuti etici e culturali, religiosi, etnici, geografici, militari, ispirando nei romani ammirazione, timore e insieme volontà di serrare le file per scongiurarlo e possibilmente batterlo”. Dal canto suo, Baldi sottolinea che in ogni riga tacitiana è esplicita la volontà di contrapporre i costumi dei Germani a quelli dei suoi concittadini.

 

“De origine et situ Germanorum”, come recita il titolo originale, si divide in due parti: nella prima sono trattati l’aspetto geografico della regione, gli usi e la vita quotidiana degli abitanti, l’organizzazione politica, sociale e militare, le istituzioni familiari, la religione. Nella seconda, con rapidi cenni si passano in rassegna le singole popolazioni, da quelle più conosciute e civili a quelle più primitive, dove affiora una forte simpatia per quelle genti sane e immuni dai guasti prodotti dal lusso e dalla ricchezza. “Truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora” (“Hanno occhi azzurri e fieri, i capelli fulvi e sono di grande corporatura”). La robustezza dei guerrieri germanici, la loro statura imponente, lo sguardo truce, avevano già colpito i centurioni di Cesare che ne erano rimasti atterriti. In un’epoca in cui si combatteva corpo a corpo, l’esito della battaglia si rifletteva sullo sguardo del guerriero: “Nei combattimenti sono gli occhi i primi ad essere vinti”. La loro cucina è semplice e genuina: frutta selvatica, cacciagione fresca e latte rappreso (il nostro yogurt). Si mettono a tavola appena svegli, dopo essersi lavati con acqua calda. A differenza dei Romani, che preferiscono il vino, bevono un liquido ricavato dall’orzo e dal frumento fermentati: la birra. Da noi chi si ubriaca è visto con disprezzo; non in Germania: “Consumare il giorno e la notte bevendo non è considerato da nessuno un’azione della quale vergognarsi”. Non meraviglia, quindi, se spesso la festa degenera: “Come accade tra ubriachi, le risse sono frequenti”. I Germani non abitano in città come le nostre, dove una casa è addossata all’altra: vivono isolati e sparpagliati (“colunt discreti ac diversi”), lasciando tra una casa e l’altra ampi spazi verdi.

 

  

 

Un popolo sano, insomma, non ancora corrotto dalla civiltà: “Le donne vivono in una gelosa pudicitia e non si lasciano corrompere dalle attrazioni degli spettacoli né dalle lusinghe dei banchetti”. I Germani non sono gente astuta né furba (“gens non astuta nec callida”), perciò hanno un animo schietto e genuino (“ergo detecta et nuda omnium mens”). Ma, soprattutto, non sanno mentire; non sanno, come noi latini, fingere (“fingere nesciunt”). La loro economia ignora l’usura e il “fenus” (il tasso d’interesse); lo stesso denaro, fonte di ogni male, sono stati i Romani a introdurlo. Il ritratto della struttura sociale dei Germani è certamente una delle parti più interessanti del volumetto. Non esiste una figura del “capo” rigida come in altre civiltà: “I re vengono scelti per la loro nobile origine, i comandanti in base al valore militare. Il potere dei re non è assoluto e arbitrario; i condottieri si distinguono offrendo il loro esempio piuttosto che impartendo ordini: sono oggetto d’ammirazione se sono coraggiosi, se si mettono in vista, se combattono in prima linea. Del resto, nessuno ha il potere di condannare a morte o imprigionare o far fustigare qualcuno se non i sacerdoti”. I Germani di Tacito, in altri termini, sono tutto quello che i Romani erano un tempo. Sono un exemplum, un modello, che lo storico dei fasti e nefasti di Tiberio, Claudio e Nerone addita ai suoi contemporanei.

 

Arnaldo Momigliano definì la Germania “un libro molto pericoloso”. Perché, fin dall’inizio del Sedicesimo secolo, fu letto e interpretato in chiave nazionalistica. Del resto, lo stesso Tacito aveva fornito ai tedeschi, negli Annali, il ritratto del loro eroe: Arminio, il condottiero invincibile che aveva sterminato nella foresta di Teutoburgo le legioni romane di Quintilio Varo (9 d.C). Ben si comprende, quindi, come già ai tempi della sua scoperta in epoca umanistica il suo scritto abbia suscitato interessi non solo filologici, ma soprattutto storici e etnografici. Interessi destinati ad accentuarsi nell’Ottocento, allorché il trionfo degli spiriti nazionalistici alimentò nella cultura tedesca la ricerca delle radici della propria storia, fino a diventare una specie di Bibbia, la prova documentaria di una remotissima purezza.

 

La prima menzione della Germania dopo la rinascita carolingia risale al cardinale Enea Silvio Piccolomini. Eletto Papa col nome di Pio II nel 1458, firmò un testo dal titolo omonimo in cui metteva le fondamenta del patriottismo teutonico. Con Piccolomini inizia la fortuna rinascimentale di Tacito presso gli umanisti tedeschi. Fortuna che toccherà il suo apice durante il Romanticismo. Johann G. Herder e Johann G. Fichte elaborarono così il mito del popolo originario (“Urvolk”). Nella seconda metà dell’Ottocento, poi, si pongono le basi più consistenti della lettura in chiave nazionalistica della Germania con le ricerche di Jacob Grimm, secondo il quale i Germani dell’età classica dovevano essere considerati i progenitori dei tedeschi moderni. Più tardi, uno dei maggiori teorici della razza pura, Houston Chamberlain, costruisce l’archetipo ideale del dolicocefalo biondo, suffragandolo con discutibili ritrovamenti fossili dell’età del bronzo. Dunque anche l’archeologia -oltre alla filologia- veniva posta al servizio della leggenda di una stirpe incontaminata.

 

  

 

Heinrich Himmler lesse per la prima volta la Germania nel 1924. Il futuro capo delle SS non nascose il suo entusiasmo per i capitoli sulla purezza dei “Germanen”, e capì subito quale formidabile strumento di propaganda potessero costituire. Che, poi, Tacito li avesse descritti anche come ubriaconi, collerici, pronti a giocarsi ai dadi la libertà personale, veniva tranquillamente passato sotto silenzio. Nel luglio del 1935, vivamente impressionato dalle teorie di Hermann Wirth, Himmler decise di creare insieme a lui un’associazione, la “Deutsche Ahnenerbe” (“Eredità degli antenati tedeschi”), che aveva lo scopo di promuovere “la scienza dello spirito preistorico tedesco”: scopo apparentemente scientifico, ma chiaramente finalizzato alla ricostruzione del mito della razza ariana. Qualche anno dopo Himmler ribadì che l’associazione consisteva si proponeva di sviluppare lo studio dell’antichità germanica e dell’identità razziale dei germani, per trasmetterla al popolo quale insegnamento di vita. Si spiega così, anche, il suo tentativo di impossessarsi del manoscritto originale di Tacito, incluso nel celebre “Codex Aesinas” e custodito a Jesi nella biblioteca del conte Balleani. Su consiglio di Himmler, Hitler chiese di poterlo avere in prestito direttamente a Benito Mussolini, in visita a Berlino per le Olimpiadi del 1936, proposta subito accettata dal Duce. Due anni dopo il Führer chiese di poter acquistare il manoscritto, ma il ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, sentito anche il parere di una commissione di intellettuali, che erano contrari all’esportazione del prezioso manoscritto, comunicò che il proprietario non aveva intenzione di vendere.

 

Cinque anni dopo, nell’autunno del 1943, un drappello di SS fece irruzione nella sua villa trovandola però vuota, perché abbandonata dai proprietari a causa del precipitare degli eventi bellici. Una vera e propria ossessione, quella di uno degli uomini più potenti e crudeli del regime hitleriano, raccontata da Christopher B. Krebs in un saggio magistrale, che anch’esso meriterebbe di essere ristampato in tempi segnati dal riemergere di inquietanti pulsioni antisemite e razziste (La Germania di Tacito dall’impero romano al Terzo Reich, Il Lavoro Editoriale, 2012). Secondo l’insigne docente di Filologia classica alle Università di Harvard e Princeton, l’opera del senatore romano esercitò una grande influenza per quasi cinque secoli perché forniva una risposta a una domanda legittima: la fondazione di una coscienza nazionale tedesca. Infatti, prima che la Confederazione del nord e i principati del sud si unissero per formare l’impero germanico (18 gennaio 1871), non esisteva uno stato nazionale tedesco e i cartografi sospiravano guardando l’Europa centrale, disperati per la confusione in cui versava. Prima di allora la Germania esisteva solo come sentimento. Agli inizi del Cinquecento, umanisti che vivevano al nord delle Alpi si autodefinivano “tedeschi” e spingevano i loro connazionali a studiare e riunirsi in difesa della patria. Essi trovarono nell’opuscolo di Tacito questa patria: un popolo di uomini coraggiosi dai costumi rozzi, se paragonati a quelli raffinati dei romani, ma dalle superiori virtù morali e appartenenti a una stirpe incontaminata. L’ideologia nazista, quindi, non è nata dal nulla. Nella creazione dei suoi concetti basilari (razzismo e mito del “Volk”) la Germania – afferma Krebs utilizzando la definizione di Momigliano – è un libro molto pericoloso non perché si adattava alla cornice del nazionalsocialismo, ma perché ha contribuito a formarla. Ad esempio, le leggi di Norimberga “per la difesa del sangue e dell’onore tedesco”, approvate nel 1936, vietavano i matrimoni tra ebrei e tedeschi, così come si credeva che ai “Germanen” di Tacito fossero imposte restrizioni alla libertà di contrarre matrimonio con stranieri.

 

   

 

Le idee assomigliano ai virus: dipendono dalle teste che le ospitano. Si moltiplicano e cambiano nella forma o nella struttura, si uniscono e formano le ideologie. Esse si diffondono attraverso i secoli e passano da un gruppo sociale a un altro. Il virus della Germania, importato alla fine del Quattrocento dall’Italia, mostrò localmente diversi sintomi nei testi storici, nei trattati linguistici, nella cultura e nella politica, nelle leggi, nelle teorie razziali, e persino nei manuali scolastici; e tutti erano prova di una grave malattia. Poi, dopo trecentocinquant’anni di incubazione, il male si aggravò e sfociò in una infezione sistemica culminata nella tragedia più immane del Novecento.

 

Al termine del conflitto mondiale il “Codex Aesinas” fu depositato dal conte Aurelio Balleani in una cassetta di sicurezza del Banco di Sicilia a Firenze. Seriamente danneggiato dallo straripamento dell’Arno nel novembre 1966, venne restaurato nell’Abbazia di Grottaferrata e, alla morte del conte, fu donato dagli eredi allo Stato italiano. Dal giugno 1994 è conservato nel fondo Vittorio Emanuele della Biblioteca Nazionale centrale di Roma.

 

A Detmold, città della Renania-Vestfalia epicentro della battaglia di Teutoburgo, dal 1875 il monumento di Arminio, una gigantesca statua di bronzo, si erge a quasi 54 metri di altezza su un mausoleo. Da maggio a ottobre del 2009, in occasione del bimillenario della vittoria di Arminio, è stata il teatro di imponenti celebrazioni con il patrocinio del governo federale. Per sei mesi il codice Aesinas fu finalmente visto da decine di migliaia di tedeschi. Dove avevano fallito sia Hitler che Himmler, era invece riuscita – sia pure temporaneamente – Angela Merkel.

 

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