La statua di Joyce a Dublino (foto Wikipedia)

Joyce, 80 anni dalla morte

Il 13 gennaio 1941 moriva a Zurigo lo scrittore, poeta e drammaturgo irlandese autore dell'Ulisse, la sua opera più celebre. Fu legato all'Italia e a Italo Svevo, con il quale intrattenne uno straordinario sodalizio intellettuale e letterario.

Se n'è andato 80 anni fa, in un freddo lunedì a Zurigo, la città che per ultima lo aveva accolto dopo una vita di spostamenti, di viaggi e di incontri. James Joyce fu poeta e drammaturgo, ma soprattutto scrittore, critico, un anticonformista della letteratura, considerato uno dei più grandi della corrente modernista, per quella capacità di scoprire e di sperimentare, attraverso la lingua. La sua produzione non fu vasta, ma in grado di incidere nella storia della letteratura del Novecento, con racconti e romanzi. Da "Ritratto dell'artista da giovane" a "Esuli", fino a "Gente di Dublino". Ed è proprio in uno dei sobborghi della capitale irlandese che Joyce nacque il due febbraio del 1882, città amata e odiata. E ricorrente, nella sua biografia e nelle sue opere.

 

E' qui che Joyce ambienta anche l'Ulisse, il suo lavoro più celebre, per certi versi rivoluzionario, un testo che rappresenta una pietra miliare, un punto di non ritorno per la letteratura novecentesca. Un libro che non è più un libro. E’un’icona pop, al pari di certi quadri famosi per essere famosi, come scrive Mariarosa Mancuso. E’ la pietra di paragone del classico illeggibile, E’ un campo di gioco per gli studiosi che smontano e rimontano il romanzo in tutti i modi possibili (anche in modi che possibili francamente non sembravano). E’ l’incubo che toglie il sonno agli scrittori irlandesi venuti dopo di lui. E’ il gigante su cui si arrampicano i nani a caccia di visibilità

 

 

Dublino, Zurigo: una vita di spostamenti, dicevamo. E di luoghi che ne hanno ispirato l'esistenza. Come Trieste, dove Joyce era arrivato per la prima volta nel 1904. Una città che è stata crocevia di popoli e di culture. L'arte e la letteratura ci gravitavano attorno, racconta Giuseppe Marcenaro. Un luogo, come tutti i luoghi di confine, vocato all'extraterritorialità: un ambito dove percepire il respiro del mondo, in cui intendere la cultura della vita e la vita come cultura e dove in ponderate conversazioni o in allegra brigata, venivano accolti letterati, artisti, uomini di cultura e certi “curiosi eccentrici” di una ormai inabissata stagione.

 

Ed è a Trieste che Joyce, insegnante di inglese, incontra per la prima per la prima volta Italo Svevo, nel 1906. Personaggi quasi agli antipodi, ma uniti da una stretta amicizia e da una concezione simile del mondo, entrambi tormentati dal dubbi. Un sodalizio intellettuale e letterario che a Parigi troverà le condizioni del successo. Come ricostruisce l'articolo di Maurizio Stefanini, qui Joyce conobbe il successo letterario; e qui Svevo iniziò a essere conosciuto. A un certo punto Joyce aveva una tale autorità intellettuale a Parigi che bastava un suo lodo perché un autore venisse tradotto e letto. Se avesse abitato New York, la fama di Svevo sarebbe iniziata da New York.

 

Nel 1939, viene pubblicato “Finnegans wake”. Un mostro di libro: è lo stesso Joyce a definirlo così in una lettera che scrisse, in triestino, a Livia Veneziani, moglie dell’amico Italo Svevo e musa del personaggio femminile protagonista del lavoro. E' questa l’ultima e più ambiziosa opera di James Joyce, è il racconto di un sogno, espresso in un linguaggio talmente intraducibile che ancora oggi non è stato possibile fornirne una versione integrale in italiano.

 

 

Della sua opera più nota, l'Ulisse, Joyce specificò che “far scervellare gli studiosi per i decenni a venire” era uno dei suoi intenti. L'opera contiene infatti una serie di enigmi la cui risoluzione è ancora al centro delle attenzioni di tanti e tanti studiosi nel mondo. Allo stesso modo, quel “Finnegans wake” è un'opera che non esaurisce la sua spinta nella letteratura, va molto oltre. In realtà è una macchina per pensare e per pensare sempre nuovi pensieri in grado di emancipare l’uomo dalla condizione di prevedibilità assoluta cui invece la Macchina algoritmica oggi lo condanna. Porta a pensare l’impensabile: come l’Lsd, accende il cervello connettendo neuroni tra di loro non comunicanti.

 

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