Anna Livia si sta svegliando… Si libera del linguaggio, fluisce verso la liberazione, verso l’accettazione piena d’amore delle cose così come sono (Anastasija Valiulina, “Volto femminile”)

J. Rodolfo Wilcock e “Finnegans Wake”

La guida di un poeta ingegnere nel labirinto di Joyce

Edoardo Camurri
Negli anni Sessanta il poliedrico scrittore argentino Wilcock elaborò un condensato in italiano di “quel mostro di libro” (così lo aveva definito lo stesso autore alla moglie di Svevo). Ora lo pubblica una piccola casa editrice

“Finnegans Wake”, l’ultima e più ambiziosa opera di James Joyce, è il racconto di un sogno, espresso in un linguaggio talmente intraducibile che ancora oggi non è stato possibile fornirne una versione integrale in italiano. Negli anni Sessanta J. Rodolfo Wilcock tentò di elaborarne un condensato in italiano, una traduzione che risulta ridottissima ma completa. Quel testo, accompagnato da un saggio di Beckett e da cinque scritti di Wilcock su Joyce, viene ora pubblicato da un piccolo editore, Giometti & Antonello (140 pp., 16 euro). La prefazione, che pubblichiamo in queste pagine, è di Edoardo Camurri.

 


 

Krzystof Bartnicki, traduttore polacco del “Finnegans Wake”, deve aver fatto, in un suo modo specialissimo e spericolato, la Grande Apertura del Compasso; deve aver cioè applicato quello che per Sergio Solmi è l’insegnamento principale di Roberto Bazlen: “Mantenere, sempre, la massima apertura del compasso; magari anche a rischio di oltrepassarne l’estremo circolo”.
E’ da un anno e mezzo circa che Krzystof Bartnicki e io ci scriviamo e il motivo per il quale un giorno ho deciso di contattarlo è perché sospettavo che alcune sue idee sul “Finnegans Wake” suggerissero un’unione ancora più profonda tra due autori amati e già singolarmente affratellati, James Joyce e J. Rodolfo Wilcock.

 

C’è da stabilire subito, qui, a scanso di equivoci, che “Finnegans Wake” è un mostro di libro: è lo stesso Joyce a definirlo così in una lettera che scrisse, in triestino, a Livia Veneziani, moglie dell’amico Italo Svevo e musa del personaggio femminile di “Finnegans Wake”, Anna Livia Plurabelle: “Giovedì sarà pubblicado el mio libro a Londra e in Ameriga. Ze anca la festa de Santa Moniga se mi ricordo ben, al quatro. Moniga son stato mi forse (La mi scusi, siora) che go messo disdoto ani de la mia vita a finir quel mostro de libro. Ma cossa La vol? Se nasse cussì. E, corpo de bigoli, ne go bastanza”; e che chiunque abbia a che fare con questo mostro, con questo strano essere vivente (perché il “Finnegans Wake” è uno strano essere vivente), è destinato a cambiare profondamente. Non lo dico dal punto di vista edificante della politica culturale, no, lo affermo invece da un punto di vista più allarmante, sanitario. Restringendo arbitrariamente il campo dell’indagine epidemiologica all’Estremo oriente, leggo per esempio che in Giappone, per completarne la traduzione, ci sono voluti tre studiosi e che il primo è morto mentre il secondo è impazzito; storia analoga in Cina dove, per evitare il peggio, mi chiedo che cosa aspetti la comunità internazionale degli intellettuali a stilare uno straccio di petizione per salvare Dai Congrong, la traduttrice, che in otto anni di fatica si è arenata a un terzo del Mostro e ormai dichiara: “Il mio corpo ha sofferto molto del lavoro, sembro più vecchia della mia età, i miei occhi sono diventati deboli e la mia pelle non sta meglio”. Figuriamoci poi di cosa pensare della sorte di Chong-keon Kim, il traduttore coreano; oltre all’impresa editoriale, non si riesce a trovare neppure una notizia che lo riguardi. E non credo sia per riservatezza.

 

La situazione, ora piuttosto grave, iniziava a essere seria già nei mesi successivi all’uscita del “Finnegans Wake”, quando lo stesso Joyce, insieme a Nino Frank, decise di tradurne un frammento in italiano per il numero di “Prospettive”, la rivista di Curzio Malaparte. Fu una delle ultime cose fatte da Joyce poco prima di morire ma non è ancora questo il punto. Bisogna invece prestare attenzione a che cosa successe nel numero successivo, quando lo stesso Malaparte si divertì a pubblicare le reazioni dei lettori a quel testo. E’ una vicenda che preferisco sia lo stesso Joyce a raccontare: “Il numero successivo (15 marzo) contiene una fotografia del ministro italiano della Pubblica Istruzione, signor Giuseppe Bottai, che egli, a quanto sembra, ha mandato al direttore. La fotografia si presume fatta subito dopo la lettura del fascicolo dedicato alla mia ’prosa’. Sua Eccellenza è figurato seduto al tavolo, con una mano sulla fronte, gli occhi chiusi e un’espressione di sbalordimento e stanchezza profonda sul volto. In margine alla fotografia ha scritto un’esclamazione di disperazione”.

 

Mettetevi quindi nei miei panni quando, ormai un anno e mezzo fa, Krzystof Bartnicki mi spedisce a casa un suo libro sul “Finnegans Wake”, un libro che aveva auto-pubblicato intitolandolo “Da Capo al Finne”. Ecco, voi non eravate lì con me, non avete potuto tenermi la mano, ma vi assicuro che un anno e mezzo fa, quando arrivò quel libro a casa, col suo timbro postale, ancora con la scia del sorriso del postino che l’accompagnava, e lo aprii, bene, per una decina di minuti riuscii – davvero riuscii – a immedesimarmi nel ministro Bottai e non perché non conoscevo una parola di polacco.

 

“FegaaeeaEeadAdaafeefhebedfbabgbacdcfeccabacHhCaeadEaedaefeheheahadaeceeaedfhAcahdehecagghfEeedefghheaeahadaecbheeaceeeaggeadheeeaeCggheheedbhe eaheeacefafebeedheheafafhaeacehgheafehadadcadbe…”

 

Il libro iniziava così e proseguiva, ma con altre combinazioni delle lettere e con un carattere piccolissimo, senza spazi, senza niente, così come lo vedete, proseguiva identico a sé stesso, in questa marcia trionfale degna di un Hal9000 sotto anfetamina, per centotrentatre pagine. Sfogliavo il volume e la prima immagine che visualizzai era la seguente: io in piedi, vestito di pelli siberiane, su una zattera in mezzo a un oceano bianchissimo e indifferente.

 

Dopo dieci anni di traduzione del “Finnegans Wake”, il mio corrispondente Krzystof Bartnicki era giunto a questo punto.
E questa era la sua Grande Apertura del Compasso.

 

Prima di tentare di capire in che cosa consista l’idea di Bartnicki, occorre però dire che in questa vicenda J. Rodolfo Wilcock ha un ruolo fondamentale. Non solo perché Rodolfo Wilcock ha tradotto una selezione intelligentissima del “Finnegans Wake” e lo ha fatto nell’unico modo sano e possibile (cioè semplificando, semplificando), ma anche perché Rodolfo Wilcock aveva un debole per tutti coloro che, nel corso della loro vita, e in vari ambiti del sapere, avevano fatto la Grande Apertura del Compasso. 

 

Un suo libro, il suo più famoso, s’intitola “La sinagoga degli iconoclasti”. Krzystof Bartnicki meriterebbe di occuparne un capitolo, senz’altro a fianco di figure come Charles Wentworth Littlefield che, in “The Beginning and Way of Life” (Seattle, 1919), comunicava al mondo i risultati dei suoi esperimenti scientifici: la cristallizzazione del sale da cucina in forma di pollo con la sola forza del pensiero; oppure come Aaron Rosenblum, figura inventata da Wilcock ma assai verosimile, un utopista che nel 1940, già in nome di qualche immaginaria decrescita felice, intendeva riportare l’umanità all’epoca elisabettiana, ripristinando così: “Il manicomio per i debitori; la forca per i ladri; la schiavitù per i negri; il rogo per le streghe; i dieci anni di servizio militare obbligatorio; la consuetudine di abbandonare i neonati per strada il giorno stesso della nascita; (…); la peste, il vaiolo e il tifo come mezzi di controllo della popolazione; il rispetto della nobiltà; il fango e le pozzanghere nelle vie del centro; le costruzioni in legno; l’allevamento dei cigni nel Tamigi e di falchi nei castelli; l’alchimia come passatempo; l’astrologia come scienza; l’istituto del vassallaggio; l’ordalia nei tribunali; il liuto nelle case e le trombe all’aperto; i tornei, le corazze damaschinate e la cotta d’arme; insomma il passato”.

 

Gli orizzonti di Krzystof Bartnicki sono ancora più vasti. Riprendiamo ancora l’incipit del suo libro:

 

“FegaaeeaEeadAdafeefhebedfbabgbacdcfeccabacHhCaeadE”.

Poi scriviamo qui sotto l’inizio di “Finnegans Wake”, titolo compreso:

 

“Finnegans Wake
riverrun, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay, brings us by a commodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs”.

 

Se non ci scoraggiamo subito, possiamo iniziare a capire che:

 

“Finnegans Wake” diventa “Fegaae”.
“Riverrun” diventa “e”.
“past Eve and Adam’s” diventa “aEeadAda”.
“from swerve of shore to bend of bay” diventa “feefbedfba”.
“brings us by a commodius vicus of recirculation” diventa “bgbacfecca”.
“back to Howth Castle and Environs” diventa “bacHhCaeadE”.

 

Da quest’opera di liofilizzazione del testo, possiamo perfino dedurre che:

 

1) Il mio corrispondente Krzystof Bartnicki ha preso il testo di Joyce e ha tolto alcune lettere mantenendone altre.

 

2) Il mio corrispondente Krzystof Bartnicki ha deciso che le lettere che andavano tolte erano tutte quelle che non erano bcdefgah.

 

3) Il mio corrispondente Krzystof Bartnicki rivendica (credo apoditticamente) che Joyce abbia voluto inserire apposta e in un ordine preciso solo quelle lettere bcdefgah;

 

3 bis) a tal proposito, per giustificare l’intuizione e attenuarne la perentorietà, il mio corrispondente Krzystof Bartnicki ricorda un passo del “Finnegans Wake” in cui si vede l’immagine di un pentagramma con le note Si Do La Re con a fianco un testo in cui si legge: “Please stop if you’re a B.C. minding missy, please do. But should you prefer A.D. stepplease” (FW 272. 12-14).

 

4) Il mio corrispondente Krzystof Bartnicki dice che questo passo gli ha fatto capire che Joyce ha scritto il “Finnegans Wake” in un codice musicale visto che bcdefgah sono le lettere che indicano le note musicali nella notazione musicale tedesca, il C è la nota Do, il D è il Re, l’E è il Mi e così via.

 

5) Il mio corrispondente Krzystof Bartnicki ha pensato così che il “Finnegans Wake” sia un enorme spartito musicale che aspetta soltanto di essere suonato.
Conclusione?
Krzystof Bartnicki l’ha suonato e dentro vi ha trovato ogni tipo di musica.

 

                                                                                             ***

 

Wilcock spiegava che: “La felicità di un artista sta nel poter concepire, come Lewis Carroll a ottant’anni, la vita alla stregua di un dialogo tra una tartaruga e un termometro” e questo è ciò che Krzystof Bartnicki potrebbe avere in mente quando fa dialogare Joyce con la musica di tutti i tempi, persino quella del futuro. Ci sono moltissimi esempi. Uno colpisce soprattutto per l’involontario (per ovvie considerazioni spaziotemporali) senso dell’umorismo di Joyce: si trova alla fine di pagina 91 del “Finnegans Wake”, dove un brano, che idealmente si apre con la parola “Warhorror” e che si chiude con “Roman Godelic faix”, se trasformato in spartito e suonato emette il tema del “Padrino” (Godfather) di Nino Rota. 

 


Daniele Vezzani, “La morte e la fanciulla”. Chissà se Vezzani ha letto i versi di J. Rodolfo Wilcock: “Beati loro che pensano al progresso, / io solo penso alla morte e al sesso” (Camillo Langone)


 

In altri luoghi del “Finnegans Wake” si può ascoltare l’Inno di Mameli, molti stralci della colonna sonora di “Guerre stellari”, esempi del folclore russo e giapponese, vaste cavalcate di dodecafonia, deliqui di Chopin, sdolcinate di Cat Stevens, il riff di “Smoke on the Water” e di “Child in Time” dei Deep Purple, un capriccioso Paganini, eccetera.
Perché tutta questa confusione? i mostri? la follia? “Il Padrino”? il traduttore coreano? perché?

 

Il perché ve lo dico io: perché un devoto del “Finnegans Wake” rischia seriamente di non ragionare più come gli altri e, di questa infilata di domande, del senso di sconcerto che ne guida la direzione, dello stupore sincero del suo interrogante, vede solo una cosa, il punto interrogativo.

 

 

Il devoto del “Finnegans Wake” non ha intenzioni cattive, ma ormai il mondo gli parla diversamente e per lui quel punto interrogativo è soltanto questo: “?”, cioè un segno a forma di orecchio. E questa scoperta è davvero troppo importante per dare retta a tutto il resto.

 

Per un lettore del “Finnegans Wake”, l’orecchio è il labirinto che la natura ha inciso sul corpo dell’uomo, l’ingresso del mondo infero; Earwicker, il protagonista del “Finnegans Wake”, ha questo nome perché Earwicker è anche il nome dell’insetto forbicina che, secondo varie leggende, s’inocula dentro le orecchie di chi dorme, e il “Finnegans Wake” è un libro che accade proprio nel sonno di Earwicker.

 

Un lettore del “Finnegans Wake” è sempre in movimento, il suo cervello è perennemente trasformato dal libro, percorso dallo zigzag della forbicina elettrica che collega le sinapsi per costringerle ad associazioni impensate. Marshall McLuhan sosteneva che questo libro è più forte dell’Lsd, i teorici della psichedelia Timothy Leary e Terence McKenna lo veneravano e Philip K. Dick lo considerava una specie di I Ching tecnologico: “Dimostrerò che il “Finnegans Wake” è un insieme di informazioni basate su sistemi di memoria computerizzata che sono apparsi solo secoli dopo l’epoca di Joyce; che Joyce era collegato a una coscienza cosmica da cui ha tratto ispirazione per l’intero corpus della sua opera. Quando l’avrò dimostrato, sarò famoso in eterno”.

 

Molte delle imprese straordinarie che la controcultura americana stava facendo negli anni Sessanta (la riscoperta dell’Oriente, la cultura digitale, il personal computer, la fantascienza) avevano questo libro alle spalle.

 

Rileggendolo oggi, poi, il “Finnegans Wake” continua a sembrare patafisicamente oracolare: troviamo la parola Email: “Speak to us of Emailia” (FW 410. 23), la parola Google: “One chap googling the holyboy’s thingabib” (FW 620. 22), le scarpe della Nike: “Nike with your kickshoes” (FW 270. 24) e il nome del campione di golf Tiger Wood: “tigerwoods” (FW 35. 7). A metà esatta del “Finnegans Wake”, Joyce mette solo tre righe di distanza tra la parola “fungo” e la parola “Nogeysoky”, cioè Nagasaki (FW 314. 19-23), al punto tale che lo stesso Luigi Schenoni, il grande traduttore in italiano del “Finnegans Wake” (tra parentesi: anche lui non riuscì a portare a termine l’impresa) cede alle lusinghe della bibliomanzia e, scomponendo il termine “Nogeysoky”, scrive: “ingl. nog: bevanda calda con latte o birra e uova; ingl. soke (stor.) giurisdizione; ingl. soak: inzupparsi, penetrare (di liquido); norv. nok snakk: basta con le chiacchiere; Nagasaki, citta del Giappone (bomba atomica statunitense, 9 agosto 1945)”.

 

“Non potete dire nulla – scriveva Jacques Derrida – che non sia già programmato in questo computer della millesima generazione, ‘Ulisse’, ‘Finnegans Wake’, rispetto al quale l’attuale tecnologia dei nostri computer (…) resta un bricolage, un gingillo antidiluviano”.

 

Ogni reazione è fuori misura: il “Finnegans Wake” come la Domenica della vita in cui lo Spirito trova finalmente la sua rotondità omnicomprensiva o il “Finnegans Wake” opera di dissoluzione, il grande Sabato della Perdizione dello Spirito.

 

E chi lo rifiuta, lo fa con toni durissimi, allontanandolo da sé come un essere proveniente dall’oltretomba, uno zombi contagioso, un ragno nero: “Una volta accettato un invito di Joyce non ci si può arrestare, bisogna seguirlo fino in fondo al suo antro: in ciò la sua demonicità e la sua unica decenza. (…) l’opera di Joyce è una macchina inarrestabile, nel suo giro travolge tutti a loro dispetto, conduce a una progressiva spoliazione di ogni fattore che sia armonioso (l’eleganza verbale sarà l’ultimo velo a cadere), non permette ai vizi di restare segreti, li vuole manifesti, e non tollera neanche la cognizione del vizio: la resa totale alla schizofrenia è ciò che esige”.

 

Se dovessimo seguire Elémire Zolla su questa strada, arriveremmo piuttosto lontano: lo stesso Jung accusava Joyce di avere scritto un’opera schizofrenica, un libro dove si entra nel mondo infero abbandonando per sempre, senza possibilità di ritorno, il mondo diurno; è un discorso curiosamente simile a quello fatto da Emilio Cecchi durante il suo viaggio in Messico: osservando il complicato ordito di alcuni tappeti, il grande anglista spiega che “quando una donna Navajo sta per finire uno di quei tessuti, essa lascia una trama e nel disegno una piccola fenditura, una menda: ’affinché l’anima non le resti prigioniera dentro al lavoro’. Questa mi sembra una profonda lezione d’arte: vietarsi, deliberatamente, una perfezione troppo aritmetica e bloccata. Perché le linee dell’opera, saldandosi invisibilmente sopra sé stesse, costituirebbero un labirinto senza via d’uscita; una cifra, un enigma di cui s’è persa la chiave”.

 

                                                                                     ***

 

Rodolfo Wilcock, ne sono certissimo, può indicarci la via d’uscita al “Finnegans Wake”. Osservate la sua traduzione: è come se si fosse calato all’interno del testo, sprofondando nella sua notte, ma tenendo sempre ben salda la corda che, prima di scendere, ha assicurato con forza a qualche appiglio diurno.

 

Non ha mai ingaggiato con Joyce una battaglia frontale, non ha mai osato ricreare il libro accettando le regole del gioco imposte dal maestro; non gli ha mai contrapposto uno specchio; ha lasciato invece che il suo fuoco illuminasse, scaldasse, non che bruciasse. I mostri, ma anche i maestri, vanno sempre osservati mantenendosi in una posizione di sicurezza: gli spiriti affini, ed è questo il caso esatto di Wilcock e di Joyce, si salutano e si riconoscono già di lontano. Chi ci è più vicino, va tenuto a distanza.

 

“Essendo quest’opera – avverte Wilcock presentando la sua traduzione e la scelta dei brani – quasi interamente scritta con parole inventate, di tre, quattro, cinque e perfino sei sensi, la sua traduzione in una qualunque lingua è assolutamente impossibile. Abbiamo scelto soltanto i brani meno difficili, per cercare di dare al lettore una vaga idea del romanzo, avvertendo però che buona parte dei molteplici sensi del testo originale sono andati per forza perduti nella traduzione”.

 

Wilcock accetta la richiesta del compasso: massima apertura, disponibilità a oltrepassare l’estremo circolo e insieme consapevolezza che quell’estremo non va mai superato. E’ il calcolo abissale dell’acrobata, l’oculatezza vertiginosa di chi per primo decide di mettere piede in una terra sconosciuta.

 

Rodolfo Wilcock era ingegnere, come Gadda, e gli ingegneri sono creature candide e astute allo stesso tempo: da un certo punto di vista sono gli esseri più metafisici del mondo, dall’altra se ne vergognano. Sbuffano dinanzi all’abisso e poi cercano di costruirci sopra una ferrovia.

 

Gadda vedeva l’orrore, quello universale, dappertutto, anche in un piatto di gnocchi al gorgonzola, e ne era atterrito; Wilcock invece aveva sensibilità e ironie metafisiche più simili a quelle di Kafka: “La vera via passa per una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra del suolo. Sembra destinata a far inciampare più che a essere percorsa”.

 

[**Video_box_2**]Wilcock aveva capito che anche l’orrore è una forma transitoria della rappresentazione, che la lingua ha una sua morale (“La gente – scriveva sempre Bazlen – pensa che si tratti di verità eterne: si tratta solo di aggettivi”) e che è sufficiente applicare le regole della scienza empirica al linguaggio per stare con decenza in questo “teatriste mondo” (dalla traduzione di Wilcock del “Finnegans Wake”).

 

Wilcock assomiglia all’Arturo Gerace di Elsa Morante (lo dice Arturo con sprezzatura, ma potrebbe sottoscriverlo Wilcock senza esitazioni: “La mia fantasia non saprà mai concepire la ristrettezza della morte. A confronto di questa infima misura, diventano signorie sconfinate non dico l’esistenza di un misero prigioniero dentro una cella, ma perfino quella di un riccio attaccato allo scoglio, perfino quella di una tignola!”), solo che ha letto Wittgenstein ed è abbonato a Scientific American.

 

E allora volete sapere una cosa? Questa grande attenzione, questa ammirata prudenza, persino questa resistenza all’enigmistica, è dovuta all’adesione commossa, piena e generosa di Wilcock alla poetica di Joyce.

 

La stessa adesione che ha fatto scrivere a Wilcock parole che quasi mai – perché nei confronti della società letteraria ha sempre mantenuto un atteggiamento d’ironica aristocrazia – ha riservato a altri scrittori, come queste a proposito di “Ulysses”: “A un paese malato di censura il miglior antidoto contro la censura, cioè un’opera forte come un castello, in ognuna delle cui finestre si può scorgere una delle facce che più fanno paura alla censura; quella della Bellezza, quella della Verità, quella della Gioia di Vivere, quella dell’Umanità, quella della Bontà, quella dell’Amore; mentre nel tetto la Poesia brandisce sorridente la sua spada lampeggiante. Un’altra opera da leggere nel carcere con cui impudentemente ci minacciano”.

 

La salvezza dal mondo infero che ha spaventato e attirato tutti, cavalieri e patafisici, accademici occhialuti e psicopompi anfetaminici, sono le lacrime (sì, le lacrime) che usciranno copiose (sì, copiose e grate) quando si sarà trovata la forza di arrivare alle ultime pagine del “Finnegans Wake”.
Non mi sento di riassumerle.

 

Posso solo dire che Anna Livia, la moglie di Earwicker, si sta svegliando, sta aprendo gli occhi. Nella penombra vede il marito accanto a lei, sdraiato su un fianco, sul letto: sembra una montagna. “Imlamaya”, lo definisce Joyce, come l’Himalaya, ma usando il termine Imla, nome del padre del profeta Michea, parola che si può tradurre con “Pienezza”, e il sancrito Maya, illusione. L’Himalaya, la grande montagna sacra, diventa così pienezza dell’illusione.

 

Il grande sogno di cui è fatto il “Finnegans Wake” è destinato a svanire non appena si fa giorno, come i fiumi sono destinati a morire appena raggiungono il mare. Ogni singola riga dell’ultima parte registra il progressivo svanire di questa illusione. Anna Livia si libera del linguaggio, fluisce verso la liberazione, verso l’immediatezza, verso l’accettazione piena d’amore delle cose così come sono nel loro eterno ripetersi; Imlamaya, come già avveniva con Molly, Joyce ripete qui il suo grande Sì.

 

Sono tra le pagine più belle nella letteratura di tutti i tempi. Fatelo con calma, ma andate a leggerle. Lo dico senza prudenza alcuna, perché la felicità d’animo che regalano è crescente e naturale, priva di ogni bruttezza. Se il “Finnegans Wake” è complicato come un mandala tibetano, quelle ultime pagine sono invece il gesto del Lama che ne smaterializza il disegno, la menda lasciata nel tappeto Navajo.

 

Come insegnava lo stesso Wilcock, “un’opera grande calcina e volatilizza il problema dello stile, della forma”.
Ed è questa la Grande Apertura del Compasso di James Joyce. L’uscita dal labirinto come dissoluzione del labirinto.