Febbre da kimchi

Molto più di un cavolo fermentato

Giulia Pompili

E’ l’identità nazionale sudcoreana.  E soprattutto un affare di famiglia, di cui voleva appropriarsi pure la Cina

Anzitutto dovete procurarvi un cavolo cinese. E’ una pianta della famiglia delle Brassicaceae, una varietà di cavolo che, come spiega il nome comune, si coltiva soprattutto a oriente. Attenzione, perché se siete in Corea del sud, tra novembre e dicembre trovarne un po’ sarà difficilissimo: decine di ajumma (così si chiama la donna coreana sposata di mezza età, responsabile della sopravvivenza del nucleo familiare: uno stereotipo, ma mica tanto) si azzuffano letteralmente per le prenotazioni, comprano mastodontiche quantità di cavolo direttamente dai coltivatori, riempiono la casa di cavolo. La fase successiva è chiamare a raccolta tutta la famiglia. Figli sparsi per l’Asia, l’Europa e l’America sono a volte costretti a tornare per partecipare al momento più importante dell’anno: il kimjang, la preparazione del kimchi, che dal 2013 è patrimonio dell’Unesco. Perché il kimchi è un affare di famiglia. Anzi, di quartiere. E’ un po’ come un tempo funzionava la preparazione della salsa di pomodoro in Italia, prima che la grande distribuzione superasse, per economia e qualità (i puristi ci perdonino) la salsa fatta in casa. Con il kimchi non è andata così: per quanto i preparati funzionino e siano usati, resiste la preparazione fatta in casa. Se parlate con i boomer coreani vi diranno che spesso gli ingredienti del kimchi confezionato vengono dalla Cina, e quindi “è più sicuro se lo prepariamo noi”, perché niente più del cibo fa uscir fuori la diffidenza, il sospetto, ma soprattutto l’orgoglio patriottico, perfino il nazionalismo. E poi c’è la moda. Negli ultimi anni – e specialmente con la pandemia – c’è un ritorno alla tradizionale preparazione, che dura per giorni e si fa proprio in questo periodo, quello invernale e prima dell’anno nuovo. Prima si puliscono decine, centinaia di cavoli, poi si cospargono le foglie, una a una, con una salsa speciale fatta con il peperoncino coreano, che è l’unica cosa che a quanto pare non si trova in Italia e va importata direttamente dalla penisola asiatica. E nella salsa ci va il pesce fermentato, l’aglio, tantissimo aglio (la parte più noiosa della preparazione del kimchi, pare, è quella della pulizia degli spicchi d’aglio), lo scalogno, e altre cose non ben definite che vanno rubricate come “segreti di famiglia”. Dopo il passaggio nella salsa, i cavoli si mettono in fermentazione dentro l’acqua salata per almeno quarantotto ore, e si girano di tanto in tanto. Quando sono pronti, si mettono in barattolo, e i barattoli che un tempo si conservavano sotto terra, adesso si immagazzinano dentro a speciali frigoriferi che sono più caldi e più umidi di quelli normali, per aiutare la fermentazione. Il frigorifero per kimchi è l’elettrodomestico più richiesto in Corea. Ma la maggior parte delle scorte che le famiglie producono durante il periodo di kimjang si distribuisce: la preparazione del kimchi, a inverno inoltrato, serve al fabbisogno di tutti i membri per tutto l’anno. A fine novembre Choe Sang-hun, capo dell’ufficio di Seul del New York Times, ha scritto un lungo articolo sul ritorno della tradizione familiare del kimchi, che va di pari passo con lo sbarco sulla scena globale della Corea del sud: dal K-pop al cinema (come Kim Ki-duk, morto ieri, e Bong Joon-ho, premio Oscar per  “Parasite”), dal “modello sudcoreano” contro la pandemia al nuovo elemento di soft power che potrebbe rimpiazzare il Giappone e il suo sushi, il cibo coreano. “Han Sook-hee, 59 anni, e altre donne della contea di Goesan, facevano ogni anno il kimchi per loro e per i loro figli, che sono emigrati nelle città”, scrive Choe Sang-hun. “Negli ultimi anni hanno iniziato a ricevere richieste di kimchi dai vicini dei loro figli. Quattro anni fa, un abitante del villaggio ha suggerito: perché non proporre un seminario di kimjang per dare alla popolazione del villaggio che sta invecchiando un reddito extra durante la bassa stagione agricola, e allo stesso tempo aiutare quelli che vogliono imparare l’arte di fare il kimchi?”. Il Kimjang Festival di Goesan, una delle regioni più famose per la coltivazione di cavolo cinese, è diventato un successo. 
“Niente è più buono del kimchi di mia madre”, dice al Foglio un coreano millennial che vive in Italia ormai da anni, “quello fresco è meno piccante, ma dopo qualche mese che è in conserva diventa così denso, così forte... dovresti provare la focaccia con il kimchi di mia madre”.


Su qualunque tavola siate, a casa al ristorante o al fast food, se mangiate coreano, la ciotolina di kimchi sul tavolo non manca mai, come accompagnamento del pasto o come ingrediente principale del piatto. Con il kimchi si condisce il riso, si fanno i pancake, le zuppe, gli stufati, si fanno i panini da McDonald’s (sorry, solo in Corea), si mette sulla carne, si mangia a colazione pranzo e cena. E’ l’identità nazionale, tanto che, come ricorda il New York Times, nel 2008 quando il primo astronauta sudcoreano sbarcò sulla Stazione spaziale internazionale, come simbolo del paese si portò dietro il kimchi. A Seul c’è un museo sul kimchi, e periodicamente vengono pubblicati studi sugli effetti benefici sulla salute del kimchi. L’ultimo, pubblicato su BioMed Central dal prof. Jean Bousquet dell’Università di Montpellier (abbiamo controllato, esiste), dice che è possibile che la verdura fermentata faccia morire meno di Covid. Il basso tasso di mortalità che c’è nei paesi asiatici sarebbe un indicatore, e anche in Germania (per via dei crauti). Una serie tv famosissima di qualche anno fa si chiama “Everybody Say Kimchi”, e parla di una donna mollata dal marito che si mette a produrre il cavolo fermentato. Il titolo viene dalla parola che i coreani dicono quando scattano le fotografie (altro che cheeeese), e soprattutto da quella serie viene uno dei meme più famosi dell’internet sudcoreano: il “kimchi slap”, lo schiaffo del kimchi. La protagonista, una tipica ajumma, apre una confezione di cavolo fermentato e lo schiaffa sulla guancia del giovane arrogante personaggio. 


Tutto è kimchi, in Corea. I sudcoreani ne consumano circa due milioni di tonnellate all’anno, e più volte il governo ha proposto il prezzo del kimchi come nuovo indicatore nazionale dei prezzi, una specie di Big Mac index ma alla coreana. Finora le statistiche infatti si basano sui prezzi di quelli confezionati, ma secondo i funzionari del ministero dell’Agricoltura ci vogliono quasi duecento dollari per comprare gli ingredienti per fare il kimchi per una famiglia di quattro persone. Quest’anno è stata particolarmente dura. Bloomberg a fine ottobre ha titolato: kimchi catastrophe. Le alluvioni dovute alla stagione dei tifoni particolarmente intensa ha rovinato i raccolti, perché la pianta è molto delicata, e i prezzi del cavolo cinese sono improvvisamente aumentati fino al 60 per cento. Poi sono tornati a scendere, in tempo per la stagione del kimjang. 


Ma non bastavano i tifoni. A rovinare il clima di festa quest’anno sono arrivati i cinesi. Nello Sichuan si usa il pao cai, verdura fermentata che si usa in modo molto simile al kimchi. La scorsa settimana l’Organizzazione internazionale per la normazione, un ufficio con base a Ginevra che stabilisce gli standard internazionali delle cose, ha introdotto le regole base per la produzione del pao cai cinese. Sul Global Times, il tabloid cinese in lingua inglese che spesso produce contenuti fatti apposta per provocare le reazioni internazionali, subito dopo sarebbe apparso un commento – poi rimosso – sul riconoscimento all’industria “del kimchi guidata dalla Cina”. Nell’articolo si faceva derivare la nascita dell’orgoglio nazionale coreano dal pao cai cinese. Apriti cielo: dopo le proteste dei sudcoreani, perfino l’Oin ha rettificato: parlavamo solo della verdura fermentata dello Sichuan, non del kimchi. Ma nel frattempo sui social network la questione è diventata identitaria, e di “appropriazione culturale”. E’ intervenuto perfino il ministro dell’Agricoltura sudcoreano a dire: cari amici, state parlando di due cose diverse. Il Global Times è caduto dalle nuvole, e qualche giorno dopo ha pubblicato la reazione della portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, che in conferenza stampa ha detto “di non essere a conoscenza della lite sull’origine del kimchi tra cinesi e sudcoreani, ma comunque l’amicizia tra i due paesi supera questa vicenda”. I rapporti tra Seul e Pechino sono tornati alla normalità dopo un periodo di tensioni tra il 2016 e il 2017, ma l’impressione è sempre che la Corea del sud cerchi in tutti i modi di non scontentare mai il vicino ingombrante. Nemmeno su una questione di principio, e a questo punto cosa c’è di più importante del kimchi.


Jack London, che era stato corrispondente in Corea durante la guerra sino-russa all’inizio del Novecento, parla del kimchi ne “Il vagabondo delle stelle”: “E’ qualcosa di simile ai crauti. Quando è avariato puzza da far schifo. Te lo dico, conosco tutto del kimchi. Conosco il buon kimchi, il cattivo kimchi, quello andato a male. So che il miglior kimchi del mondo lo fanno le donne di Wonsan”. Ed è vero: Wonsan è una delle città portuali più importanti della Corea del nord, a un paio di ore di macchina da Pyongyang, quella che si affaccia sul mar del Giappone e dove accanto ai parchi di divertimento ci sono le basi missilistiche di Kim Jong Un. Oggi a Wonsan il piatto tipico è la carne cotta sulla pietra, ma il kimchi resta la base della dieta di qualunque nordcoreano. Come racconta Will Ripley della Cnn in uno dei suoi lunghi reportage dalla Corea del nord, per la maggior parte dei nordcoreani la carne e il pesce continuano a essere un lusso: il cavolo cinese fermentato, invece, è abbordabile, tanto quanto il riso. Durante il primo summit tra Donald Trump e Kim Jong Un a Singapore, la famosa catena locale di gelati Udder presentò al media center un nuovo gusto al sapore di kimchi. Durante il secondo summit, quello di Hanoi, degli chef nordcoreani volarono in Vietnam per aiutare quelli americani a preparare la cena di rappresentanza, e in particolare due cose: la bistecca con kimchi e il digestivo analcolico ai cachi. Il cavolo fermentato è anche questo, l’elemento che unisce politicamente. Ma al di là dell’aspetto diplomatico,  la verità è un’altra, più concreta: da un lato del Trentottesimo parallelo il kimchi si mangia per necessità, dall’altro lato, quello ricco, si mangia per riscoprire la tradizione. Che non sempre, però, è esportabile così com’è.


Jack London trascorse cinque mesi nella penisola coreana, come inviato dell’Examiner di San Francisco. Fu arrestato diverse volte dai giapponesi, la Corea e l’oriente in generale finirono spesso nei suoi racconti e nei suoi reportage. In una lettera alla sua seconda moglie Charmian Kittredge, appena arrivato nella penisola, scrive: “Spero che il mio stomaco mi perdoni un po’ per quello che ci sto mettendo dentro: schifezze, sporcizia, indescrivibile, e la cosa peggiore è che non riesco a non pensare alla schifezza e al lordume mentre metto in bocca ogni boccone”. Per una cosa del genere oggi il governo di Seul metterebbe delle sanzioni contro la California. Anche perché, nel corso dei decenni, il kimchi da “cibo puzzolente” (appena sbarcate all’aeroporto di Seul quell’odore, che non è proprio di kimchi ma ha a che fare col kimchi, vi accompagnerà per tutto il tempo) è diventato il nuovo fighettismo culinario anche d’occidente. Si è trasformato, ammorbidito, non esiste più solo il kimchi super piccante – anche se quello fatto in casa è quasi sempre particolarmente faticoso. La Corea del sud che vuole proporsi al mondo come nuova potenza d’Asia ha bisogno che i suoi giovani riscoprano il cibo tradizionale e che, come le canzonette del K-pop, anche il kimchi arrivi nelle case degli occidentali, magari in delivery.  
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.