Salti a ostacoli contro la burocrazia. Ma le colpe non sono sempre sue

Sabino Cassese

Le responsabilità della politica. Un estratto dal nuovo libro di Sabino Cassese

E’ in vendita “Il buon governo. L’età dei doveri”, il nuovo libro di Sabino Cassese, edito da Mondadori (288 pp., 19 euro), di cui pubblichiamo qui uno stralcio.

 

Il volume presenta una raccolta di scritti rielaborati (in parte anche articoli apparsi sul Foglio) dell’ex ministro e giudice della Corte costituzionale, attualmente professore alla School of Government della Luiss e alla Católica Global School of Law di Lisbona.

 


 

La nostra vita quotidiana… è fatta di salti a ostacoli contro la burocrazia che complica ogni attività e rende difficile sia fare l’imprenditore, sia l’amministratore”, hanno scritto i presidenti delle regioni Lombardia e Veneto Attilio Fontana e Luca Zaia in una lettera aperta al presidente del Consiglio dei ministri, pubblicata sul Corriere della Sera del 22 luglio 2019. La “burocrazia” è l’imputato principale, quando si tratta di lamentare inadempienze o malversazioni che hanno origine nel settore pubblico. Ma la critica va davvero rivolta alla burocrazia? La burocrazia ha accompagnato lo sviluppo economico italiano, o questo si è realizzato fuori dell’involucro amministrativo?

 

Il peso del passato è molto forte e le fratture poche, perché vi è stata forte continuità dal modello cavouriano in poi: le uniche deviazioni sono state prima gli enti pubblici, poi le regioni, infine le autorità amministrative indipendenti. Ma queste deviazioni non hanno avuto un peso tale da modificare la rotta tracciata da Cavour prima dell’unità. Il fondatore del Regno d’Italia, però, morì subito dopo la proclamazione del regno, a differenza di Bismarck, suo coetaneo, che gli sopravvisse per quarant’anni, e per trenta di questi governò prima la sola Prussia e poi tutta la Germania.

 

Solo per brevi periodi (in particolare, l’Italia giolittiana), il vertice amministrativo è stato parte dell’“establishment”. Nella maggior parte del centocinquantennio, ne è stato estraneo, con la conseguenza che non è stato in grado di far sentire le “voci di dentro” e di proporre correzioni dell’assetto ereditato. Questa estraneità dell’alta amministrazione al “sommet de l’État” è divenuta particolarmente critica quando le amministrazioni sono divenute una parte cospicua della forza di lavoro.

 

Le strutture amministrative, con poche eccezioni, non sono mai riuscite a uscire dalla fase pre-tayloristica: si è proceduto per addizioni successive; hanno dominato le sovrapposizioni (istituito lo Sportello unico per le attività produttive, non si sono standardizzate le procedure); sono stati introdotti controlli, ma in funzione impeditiva, non correttiva; la capacità di spesa è limitatissima (meno del 3 per cento dei 37 miliardi e mezzo stanziati sul Fondo di sviluppo e coesione per il 2014-2020 risultava pagato nel 2019). L’arretratezza organizzativa si è coniugata con il patronato politico, prima limitato, poi ampliato con il cosiddetto “spoils system”.

 

Agli affari urgenti si è rimediato con la fuga dallo Stato, la creazione di enti, agenzie, autorità, società, che stanno alle frange dello Stato e fungono da surrogati. Questi sono il segno della debolezza della pubblica amministrazione.

 

Disegno organizzativo e modalità di azione degli apparati pubblici non mutarono, dopo la caduta del fascismo, a differenza della Costituzione. Quest’ultima venne sovrapposta allo Stato preesistente e si provvedette ad adattarla di volta in volta, a pezzi e bocconi, alle nuove esigenze. Poi, è il corpo legislativo che ha scelto modelli organizzativi, distribuito risorse, disegnato procedure, assegnato responsabilità, introdotto controlli. Quindi, una parte cospicua dei mali attribuiti alla burocrazia va invece imputata al corpo politico.

  

I tratti caratteristici degli apparati amministrativi sono ora i seguenti.

  

Il primo: sono poche le amministrazioni che fanno, perché molte funzioni sono state esternalizzate. Dunque, le amministrazioni “fanno fare”, nel senso che orchestrano e finanziano soggetti privati o pubblici. E questo è vero per attività che vanno dalle opere pubbliche all’istruzione, alle varie funzioni che riguardano gli immigrati, all’assistenza, alla gestione dei musei, alla pulizia e alla sicurezza degli edifici pubblici, e così via. Sono poche le amministrazioni statali che non sono “doppiate” da un ente pubblico, o da una società “in house” , o da altri organismi simili. A mano a mano che lo svolgimento dei compiti pubblici viene attribuito alle “frange dello Stato”, sfugge all’amministrazione la conoscenza e il comando delle funzioni: a furia di far fare, essa finisce per non sapere che cosa bisogna fare. L’esternalizzazione dei compiti si accompagna con la fuga dei tecnici dai ranghi pubblici, che si riempiono di meri gestori, di formazione giuridica. Gli uffici sono quindi tecnologicamente arretrati e, quando non lo sono, mettono un vestito digitale sul corpo burocratico, invece di modificarlo per adattarlo alle nuove procedure e ai servizi che il vestito digitale consente di fornire.

 

Il secondo tratto caratteristico degli apparati amministrativi è di esser composto di personale scelto senza criterio. In alcuni uffici di vertice, tre quarti degli addetti sono entrati senza concorso. Il personale della scuola degli ultimi anni non è passato attraverso regolari concorsi. I concorsi servono a sistemare sia i vincitori, sia i perdenti, mediante meccanismi che si chiamano assunzione degli idonei o scorrimento delle graduatorie. Di questo abusa il corpo politico, facendo entrare propri collaboratori che occupano anche loro in modo abusivo (perché reclutati senza concorso) posti amministrativi.

 

Un terzo elemento caratteristico, divenuto dominante negli ultimi decenni, è dovuto dalla espansione del sistema penale, con sacrificio dei principi di giustizia e di efficienza. Chi deve decidere negli uffici pubblici ha paura non per propria disonestà, ma per il protagonismo di accusatori pubblici (procure penali, procure contabili, Autorità nazionale anticorruzione) che procedono senza le cautele, la riservatezza, il senso delle proporzioni che dovrebbero reggere la loro attività.

 

Il circolo vizioso che queste debolezze innesca porta alla moltiplicazione degli “entitlements” e ai meccanismi autoalimentantisi, che possano fare a meno della mano della burocrazia, che si cerca – senza riuscirci mai interamente – di evitare. Oppure alla costituzione di nuovi corpi “a latere”, corrispondenti a quello che una volta era definito “parastato”, che aumentano la frammentazione amministrativa e modificano la geometria amministrativa, alimentati come sono anche da due correnti che percorrono l’intera storia italiana, quella statalista e quella corporativa, che spingono verso una riespansione del perimetro pubblico e una ricomposizione territoriale.

 

In tutto questo, il corpo politico, invece di far sì che le cose funzionino davvero (selezionare il personale, riportare tecnici nell’amministrazione, ridare ad essa potere discrezionale, liberarla da inutili responsabilità e controlli, rinnovarne la tecnologia), si è accanito per più di tre decenni sulle riforme costituzionali, senza peraltro riuscire a farne.

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