Una manifestante del movimento Black Lives Matter sulla statua di Lincoln a Londra (foto LaPresse)

In Inghilterra è in corso un orrendo processo sommario alla storia occidentale

Giulio Meotti

È come se un destino inesorabile ci imponesse non solo di tirare giù le statue, ma di tirarci da parte

Roma. Topple the racists. E una mappa con sessanta statue in trenta città inglesi di cui si chiede l’abbattimento in omaggio al movimento nato negli Stati Uniti in seguito all’uccisione di George Floyd. E’ il sito del movimento che ha preso vigore dopo che a Bristol una folla ha gettato in acqua la statua del filantropo e proprietario di schiavi Edward Colston. Poi le proteste sotto ai monumenti londinesi di Churchill, Gandhi e Lincoln. E il sindaco, Sadiq Khan, che annuncia una commissione sulla rimozione di statue che non riflettono i “valori di Londra”, dopo aver rimosso il monumento dedicato a Robert Milligan, ricco mercante scozzese di schiavi, che era posto fuori dal Museum of London Docklands. Ci sono i nomi della Tate Gallery e del Guy’s Hospital, i cui fondatori hanno tratto profitto dagli schiavi. E poi Oliver Cromwell e Horatio Nelson. E Nancy Astor, la prima donna a essere eletta deputata nel 1919. Due statue nel Devon dedicate a Sir Francis Drake, a causa del contributo fornito al commercio degli schiavi dal primo inglese che circumnavigò la terra. E quella a Robert Peel a Manchester, perché l’ex primo ministro aveva un padre che si oppose all’abolizione della schiavitù. I consiglieri laburisti in tutto il Regno Unito hanno annunciato che provvederanno al repulisti. Una statua di re Carlo II a Soho, Londra, dovrebbe cadere perché il monarca fondò la Royal African Company. Così Cristoforo Colombo, a Belgrave, in quanto “sterminatore dei nativi americani” (a Boston martedì hanno decapitato una sua statua). Di follia in follia, c’è anche Charles Gray, l’ex primo ministro il cui governo supervisionò all’abolizione della schiavitù nel 1833. Dal vandalismo intanto non si salva neanche la statua della regina Vittoria, “proprietaria di schiavi”. Nel “Singhiozzo dell’uomo bianco”, Pascal Bruckner li chiama “i Lysenko della Storia. Senza vergogna, triturano i fatti, li calpestano, li adulterano per non lasciar sussistere più nulla. La loro frenesia ideologica arriva fino alla devastazione, fino alla soppressione pura e semplice della realtà”.

 

E’ un movimento nato nelle università inglesi. Docenti di Letteratura a Cambridge hanno chiesto di sostituire gli autori bianchi con quelli di colore per “decolonizzare” il curriculum. L’unione degli studenti della Soas, la prestigiosa Scuola di studi orientali di Londra, ha invocato la rimozione dal curriculum di Platone, Kant, Cartesio, Hegel e altri nomi “da poco” della cultura occidentale, perché “tutti bianchi”. A Manchester hanno cancellato il murale della poesia “If” di Kipling in quanto “cantore del colonialismo”. Così come è stata rimossa una famosa campana al St Catharine’s College di Cambridge perché utilizzata in una piantagione di schiavi. Ed è un movimento che nelle università è tornato. Ieri l’Università di Liverpool ha tolto il nome dell’ex primo ministro William Gladstone da una delle sale, a causa delle “sue opinioni sulla schiavitù”. A Oxford, intanto, ha le ore contate la statua di Cecil Rhodes, filantropo, fondatore della Rhodesia, oggi Zimbabwe. La posizione più coraggiosa è quella assunta sulla Bbc da Sir Geoff Palmer, il primo docente di colore della Scozia, che vuole apporre targhe sui monumenti: “Sono irremovibile, non voglio abbattere le statue, se inizi a rimuovere statue o nomi delle strade che hanno a che fare con la schiavitù, tra 50 anni dimenticherai la schiavitù. Elimini la storia”. Il cancelliere di Oxford, Lord Patten, ha ricordato che Nelson Mandela nel 2003 istituì il “Mandela-Rhodes Trust” che finanzia studenti stranieri a Oxford. “Se andava bene per Mandela, allora va bene anche a me” ha detto Patten. “Cento studenti all’anno, un quinto dall’Africa, vengono a Oxford e noi vogliamo gettare la statua di Rhodes nel Tamigi”. Ma ora è come se tutta la storia occidentale fosse una gigantesca apartheid. Come se un destino inesorabile ci imponesse non solo di tirare giù le statue, ma di tirarci da parte.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.