Un'immagine del campus dell'università di Berkeley (foto Wikipedia)

Il campus prigioniero

Giulio Meotti

“L’occidente si è suicidato a Berkeley”. Così il Nobel Milosz riconobbe il caos nel suo esilio californiano. Una nuova lettera

“Mi considero un poeta soddisfatto con i suoi dodici lettori”, diceva Czeslaw Milosz, le cui poesie erano state vietate dalla Repubblica popolare polacca e che per decenni fu uno scrittore senza un paese e senza un pubblico. Anche quando nel 1980 (due anni dopo l’elezione di un altro polacco al Soglio di Pietro) a Milosz fu assegnato il Nobel per la Letteratura, i suoi colleghi a Berkeley rimasero basiti. Solo una manciata di membri della coterie accademica californiana era a conoscenza delle poesie e del talento di Milosz. Come ha detto il professor Leonard Nathan di Berkeley, poeta e traduttore di Milosz, “non sono sicuro che le persone nel suo dipartimento sapessero chi fosse. Sono venuto qui negli anni Sessanta come membro della facoltà e non conoscevo il suo nome… L’università non era sempre ospitale con il poeta”.

 

In una lettera a James Burnham appena pubblicata, Milosz descrive il declino della cultura occidentale nel suo campus

Poco dopo l’annuncio dell’Accademia svedese, Milosz lesse in pubblico “A Magic Mountain”, i versi sull’isolamento di chi vive nella strana e perenne primavera della Baia di San Francisco ma continua a scrivere e a pensare nella lingua e nella cultura materna. Politicamente di sinistra, Milosz aveva conosciuto e combattuto due totalitarismi, il nazismo nelle rovine di Varsavia e il comunismo che vi prese il posto. Rimase un liberale cristiano, convinto che l’unico luogo intatto fosse il favo della propria coscienza realizzato dalle api della nostra immaginazione. Nel 1945, poco dopo essersi unito al servizio diplomatico polacco, Milosz fu nominato addetto culturale all’ambasciata a New York. Durante una visita a Varsavia, il suo passaporto fu confiscato, e Milosz disertò in Francia. Fu ospitato nell’ufficio parigino della rivista polacca Kultura. Poi, nel 1960, con la famiglia si trasferì in California, dove accettò un incarico nel dipartimento di Slavistica di Berkeley.

 

Adesso la rivista American Interest pubblica una straordinaria lettera inedita che Milosz scrisse a James Burnham, l’intellettuale americano partito dal trotzkismo per approdare al conservatorismo di cui divenne uno degli ispiratori, l’autore di quel “Suicidio dell’occidente” pubblicato nel 1964, anticipando decenni di pubblicazioni sul tema. Burnham era una delle anime di quel Congresso per la libertà culturale, l’organizzazione nata con l’aiuto della Cia come piattaforma per dibattiti sulla democrazia e le minacce ai valori liberali. Ne facevano parte Arthur Koestler, Manes Sperber, Margarete Buber-Neumann, Ignazio Silone, Stephen Spender e Sidney Hook, per citare solo alcune figure di spicco della sinistra non comunista. Milosz divenne uno dei collaboratori del Congresso, organizzando riunioni, simposi e conferenze. Anni dopo, Milosz avrebbe ricordato: “Era l’unico contrappeso alla propaganda su cui i sovietici spesero somme astronomiche”. Milosz iniziò a lavorare a un libro sull’abdicazione intellettuale di fronte al marxismo-leninismo. Un progetto che avrebbe portato a uno dei più importanti testi anti-totalitari della Guerra Fredda: “La mente prigioniera”. Al tempo, Milosz era il bersaglio sia dei comunisti sia di campagne velenose organizzate da emigrati ultranazionalisti polacchi che fecero pressioni contro di lui per non farlo rientrare negli Stati Uniti. James Burnham si schierò in sua difesa.

 

La lettera di Milosz a Burnham è stata trovata nell’archivio della Hoover Institution. Milosz concorda con il valore della visione pessimistica di Burnham appena esposta nel libro del 1964, ma non si dichiara conservatore. La lettera è un piccolo manifesto sul declino della civiltà vista da Berkeley, dove Milosz insegnava e che oggi è una delle principale palestre accademiche di tutto il pensiero debole occidentale.

 

“Le università americane sono modellate dai rivoluzionari del Sessantotto. Ora sono professori, ma non hanno fatto progressi”

“Questa lettera ha una semplice spiegazione: Berkeley più ‘il suicidio dell’occidente’”, scrive Milosz. “Sono stato professore qui per dieci anni. Come puoi immaginare, essere un osservatore degli scherzi di Berkeley non è un’esperienza molto edificante. La tua diagnosi è stata confermata da tutto il ‘Movimento’ delle giovani generazioni. Concordo con te sui ‘trasferimenti’ di colpevolezza . Una raccolta di saggi sulla rivoluzione russa, ‘De Profundis’, scritta da pensatori russi nel 1918 e pubblicata qualche anno fa, porta a una diagnosi simile alla tua”. Milosz è pessimista: “Abbiamo solo una civiltà e quando soccomberà, non rimarrà nulla. Un visitatore polacco mi ha detto: ‘Quello che ho trovato qui è un’enorme Monaco spirituale’”.

 

Milosz rimase, fino alla fine della sua vita, un umanista scettico e un critico di tutte le certezze ideologiche. In una intervista a Nathan Gardels sulla New York Review of Books, Milosz in quegli anni disse: “I problemi morali esistono a livello di pubblico occidentale, ma dall’altra parte del muro noi abbiamo l’ideologia marxista, sempre più sterile. L’ideologia che è stata usata per creare e giustificare il potere dello stato. Nel ’68, a Berkeley come a Parigi, vi fu una specie di rivoluzione che si fece anche a Praga. Il parallelismo porterebbe a mettere sullo stesso piano questi movimenti che invece non hanno nulla in comune. Si potrebbe sostenere che la protesta contro lo stato totalitario e la protesta contro il potere dei banchieri e delle autorità universitarie sono la stessa cosa. Ma non è cosi. In America c’è ancora una società non completamente dominata dallo stato. La Francia ha ancora una società. Ecco la diversità. La differenza di fondo tra est e ovest sta nel fatto che in occidente la società ha ancora una certa autonomia”. E ancora: “L’indifferenza, addirittura l’atteggiamento antiamericano che ho osservato a Berkeley è scioccante e molto difficile da capire. In America sono stato testimone del sovvertimento dell’etica della classe lavoratrice, che era Dio, patria, famiglia. Sulle cause, si può risalire nel passato all’infinito. Vedo un nesso con una trasformazione molto profonda per quanto riguarda l’immaginazione religiosa. C’è chi è ottimista sullo stato della religione oggi, ma io sono piuttosto pessimista”.

 

In una intervista con il giornalista polacco Adam Michnik, Milosz dirà: “L’occidente è decadente, ha un nichilismo altamente sviluppato, che esiste nel quadro di una società molto stabile e che sa esattamente cosa fare e come dovrebbe essere fatto, che quindi funziona perfettamente. La società occidentale può anche far fronte a enormi progressi nella scienza in un un processo di costante decomposizione sociale”. Per la contestazione americana, Berkeley era un posto molto importante, un magnete. “Vedendo i demagoghi che erano i leader di Berkeley, non provai la minima tentazione di unirmi a loro”, scriverà Milosz sul New York Times. Aveva conosciuto da vicino il socialismo in Europa per rigettarne la versione giocherellona californiana: “Ero piuttosto triste nel vedere ogni stupidità che avevo sperimentato”. Milosz nelle sue “Visioni della baia di San Francisco” condannerà il movimento per la sua ingenuità politica, amnesia storica, religiosità superficiale e, soprattutto, ipocrisia. “Il movimento di cui sto discutendo è una transitoria sottocultura, o meglio, si fonde nel flusso generale della moda”.

 

“L’occidente ha un nichilismo altamente sviluppato, è una società molto stabile che sa esattamente cosa fare, funziona perfettamente”

Fra i suoi bersagli c’era un altro pensatore esule a Berkeley, Herbert Marcuse, un mito della contestazione. All’affermazione di Marcuse sulla “nocività della civiltà occidentale”, Milosz rispose ironico: “E per quanto riguarda le malattie e le epidemie mondiali, per non parlare dell’universalità della morte?”. Marcuse era arrivato a teorizzare la liberazione sessuale come il soddisfacimento della necessità per il popolo di ribellarsi alla civiltà occidentale e a liberarsi dalla repressione sessuale che aveva creato. Marcuse portò la sua “teoria critica” in una nuova direzione distruttiva: visto che negli Stati Uniti non ci sarebbe stata la rivolta da parte della classe lavoratrice, aveva bisogno di un diverso gruppo di gruppi di interesse per abbattere il capitalismo usando la teoria critica. Si trattava di smantellare la società americana usando la “diversità” e il “multiculturalismo”. “A differenza di lui, non identifico la rabbia con la purezza della protesta contro la società imperfetta”, scriveva Milosz su Marcuse. “Il marchio dello stile di oggi è la rabbia diretta contro l’Esistenza. Sebbene ci siano elementi manichei in me, trovo tale rabbia indecente, ed è una mia supposizione che neanche a Dio piaccia”.

 

Sono gli anni in cui Milosz critica “l’ululato isterico di Allen Ginsberg”. “Milosz temeva l’impatto del nichilismo e del marxismo volgari, di cui fu testimone come professore a Berkeley nei primi anni Sessanta, in particolare per il modo in cui avrebbe fatto maturare l’America per una altrettanto pericolosa reazione di destra”, dirà Robert Faggen del collage californiano Claremont. “Qualcosa di inquietante si verifica quando gli americani si lanciano sugli autori europei, in particolare Nietzsche”, scriveva.

 

Gli studenti radicali gli ricordarono l’estremismo che aveva sperato di lasciarsi alle spalle in Europa. “Una volta gli studenti si erano barricati, mi avvicinai e dissi loro con il mio miglior accento slavo: ‘Andatevene, viziati figli della borghesia’. Furono completamente sorpresi”. Milosz non fu mai a proprio agio a Berkeley, rimase un esule. “La gioventù è cresciuta nella ricchezza, mascherandosi in abiti da mendicante e in idee rivoluzionarie, mi incute meno rispetto dei laboriosi boscaioli, minatori, autisti di autobus, muratori, la cui mentalità suscita disprezzo nei giovani”.

 

La sua esperienza a Berkeley fu piena di ricordi simili. “Quando stai alla finestra di un campus con un professore di origine tedesca, li guardi bruciare la biblioteca e lei dice ‘I remember’, questo è piuttosto angosciante”. Fu uno dei pochi professori che al senato accademico votarono contro alcune assurde proposte, come quella per abolire lo studio delle lingue straniere. “Gran parte della facoltà si è comportata in modo incredibilmente codardo e conformista”, ricorderà Milosz.

 

Gli studenti radicali gli ricordarono l’estremismo che aveva sperato di lasciarsi alle spalle in Europa. Che cos’è l’amore

Un giorno lo scrittore polacco si avvicinò a un altro gruppo di ragazzi che parlavano di “amore”, e disse loro: “Parlatemi di amore quando entrano nella vostra cella una mattina, vi mettono in fila e dicono ‘fai un passo avanti, è il tuo momento di morire’, a meno che qualcuno dei vostri amici vi ami così tanto da voler prendere il vostro posto”. Quando Milosz fu inserito tra i firmatari di una lettera aperta di protesta scritta dal poeta della controcultura Allen Ginsberg e pubblicata dalla New York Review of Books, Milosz rispose definendo la lettera “una pericolosa assurdità” e dichiarando di non averla mai firmata.

 

A Berkeley, Milosz vide crescere la futura classe dirigente americana. “In larga misura, l’atmosfera nelle università americane è modellata dai rivoluzionari del Sessantotto. Ora sono diventati professori, ma nel frattempo non hanno fatto molti progressi. Berkeley è pieno di questi bizzarri fossili. In questi giorni devi essere ‘politicamente corretto’, il che significa che devi essere dalla parte dei neri, contro il razzismo, per tutto ciò che è progressista”.

 

La mente prigioniera”, apparso nel 1953 a Parigi, è stato un grande attacco all’espropriazione del pensiero nei paesi del “socialismo reale”, ma anche un atto d’accusa a ogni classe di ideologi che decide di rifare il mondo in base ai propri principi in un brutale sradicamento delle coscienze e degli intelletti che fa la mente prigioniera. “Non è difficile immaginare un giorno in cui i milioni di persone obbedienti a questa filosofia potrebbero di colpo rivoltarlesi contro”, scriveva Milosz. “La nuova (anti)-religione fa miracoli: mostra a chi è in preda al dubbio nuovi edifici e carri armati. E se i miracoli dovessero cessare? Allora nelle mani che applaudono apparirebbero coltelli e pistole. La piramide del pensiero crollerebbe, e per lungo tempo là dove essa sorgeva non vi sarebbe che caos e sangue”.

 

Berkeley sarebbe diventata la capitale di tutte le nuove ideologie dominanti. Era la “mente prigioniera” trasformata, per citare il titolo di un altro grande libro che sarebbe apparso trent’anni dopo quello di Milosz, nella “chiusura della mente americana”. Milosz riprese una immagine presente nel romanzo del 1932 “Insaziabilità” di Stanislaw Witkiewicz. Vi si racconta di una specie di oppio mentale, la pillola di Murti-Bing, che consente ai conquistatori di ottenere l’assenso dei conquistati. “Il murti-binghismo esercita sull’intellettuale un’attrazione infinitamente maggiore che sul contadino o l’operaio”, scrisse Milosz. Berkeley e le università occidentali divennero le fabbriche di quest’oppio. “Si tratta di una candela intorno alla quale l’intellettuale gira come una falena, per poi gettarsi alla fine nella fiamma”. Era il suicidio dell’occidente.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.