Ritratto fotografico di Karl Marx

Va bene riscoprire il “Capitale” di Marx. Ma guai a ridiventare marxisti

Alfonso Berardinelli

Un revival del più grande classico politico di sempre

Se è vero che Marx è un classico da rileggere, da studiare e da capire di nuovo, ormai al di là dei vari marxismi del secolo scorso, ci sarà un bel lavoro da fare per gli studiosi di oggi e del futuro prossimo. Le scienze sociali e politiche si troveranno ancora di fronte il venerato gigante ottocentesco, le implicazioni teoriche e pratiche del cui pensiero non sono state ancora rivelate come dovrebbero. E’ questa l’idea trasmessa dal volume a più voci “Marx revival” (Donzelli, pp. 464, euro 30) curato da Marcello Musto, attualmente professore presso la York University di Toronto. Si tratta di una prima ricognizione enciclopedica che attraversa in lungo e in largo l’opera di Marx ricostruendo i suoi concetti e i temi fondamentali in passato riusati innumerevoli volte dai marxisti del più vario genere: dagli ortodossi rivoluzionari o riformisti, dagli eretici sia a dominante politica che filosofica.

 

I ventidue capitoli del libro riesaminano i pilastri della vulgata: capitalismo, comunismo, proletariato, lotta di classe, rivoluzione, lavoro, stato. Ma non vengono trascurate neppure le tematiche oggi più attuali, un tempo lasciate in ombra o del tutto trascurate: ecologia, eguaglianza di genere, nazionalismo, migrazioni, colonialismo, globalizzazione, educazione, tecnologia e scienza. E’ chiaro che quest’ultimo gruppo di categorie teoriche, sociali e politiche interferisce ormai così fortemente con il primo gruppo, quello canonico, da poter mettere in discussione ogni proposito di ricostruire qualcosa di coerente e organico denominabile come marxismo. Si può partire da molti punti, ma certo la nozione di “proletariato” in quanto “agente attivo della rivoluzione” e antitesi radicale alla società capitalistica, mostra una netta priorità per una eventuale attualizzazione politica di Marx. Nel giovanile, geniale “Manifesto del partito comunista”, pubblicato da Marx e Engels nel 1848 (l’opera politica più letta nella storia dell’umanità) tutti i ceti medi sono considerati essenzialmente conservatori e possono diventare rivoluzionari solo se smettono di essere quello che sono, se intravedono la propria cancellazione da parte del capitalismo e finiscono quindi per adottare il punto di vista del proletariato. Perché la prospettiva rivoluzionaria diventi attuale, realmente sociale e non idealmente politica, è necessario che l’assetto generale della società arrivi a presentarsi come una dicotomia netta e senza rimedio, provocando ineluttabilmente uno scontro frontale, violento, cioè rivoluzionario. Solo se la totalità sociale è davvero rappresentata dal proletariato industriale produttivo, è possibile, anzi urgente, la rivoluzione per una società del tutto nuova. Senza una teoria certa delle classi sociali, l’intero edificio teorico e pratico, sociologico e politico del marxismo si sfalda. Lo scontro radicale non ci sarà, non sarà possibile un’organizzazione politica anticapitalistica, la rivoluzione resterà solo un’idea, il comunismo circolerà come un’utopia puramente culturale. Se i ceti medi non muoiono, se non si “proletarizzano” fino in fondo, il capitalismo continua a vincere e a dominare proprio grazie ai ceti medi. Non è avvenuto esattamente questo nei paesi sviluppati? A cominciare dagli Stati Uniti, paese guida dell’occidente industrializzato? Quando il tipo sociale e culturale dell’“uomo medio” conquista il proletariato operaio, rivoluzione e comunismo da categorie politiche solide evaporano in categorie idealistiche, utopistiche. E si sa bene quanto Marx sia sempre stato beffardamente ostile agli utopisti e agli idealisti.

 

Nel primo libro del “Capitale” si legge che “l’accumulazione del capitale è crescita del proletariato” e che questo proletariato proviene “da tutte le classi della popolazione”. Finché l’uomo medio non arriva a sentirsi operaio, inutile parlare di rivoluzione e comunismo.

 

Credo che il libro curato da Musto sia oggi di straordinaria, anche se ambivalente, importanza. Riesaminare l’intera opera di Marx significa rileggere il maggiore classico di una critica al capitalismo elaborata con metodo scientifico come alternativa politica, sociale, umanistica. Nessun altro pensatore e studioso ha offerto con tanta originale chiarezza una sintesi di sociologia e politica, una fusione di scienza sociale e di utopia. Ma tutte le grandi sintesi ottocentesche sono state minate e fatte crollare nel corso del Novecento. Non si può liquidare Marx. Non si può neppure adottare di nuovo il suo passaggio veloce e obbligato, logico e suppostamente scientifico, dalla teoria del capitale alla pratica della rivoluzione per il comunismo. Troppe cose sono cambiate fino a rovesciarsi (il proletariato che diventa ceto medio) e la storia del marxismo si è interrotta intorno al 1980.

 

Di questo tengono conto in varia misura gli autori raccolti nel libro di Musto. Mi sembra però che quasi nessuno di loro, almeno in questa occasione, esca da Marx. Dopo averlo riletto e averne rivalutata l’importanza, limitarsi a “riattualizzarlo” sarebbe contribuire a falsificare la misura del suo valore conoscitivo oggi. Marx aveva lavorato duramente usando i teorici borghesi, gli economisti britannici Smith e Ricardo, i socialisti utopisti Fourier e Saint-Simon, il romanziere Balzac, il naturalista Darwin… C’è qualcuno che oggi sia in grado di realizzare una sintesi dei nuovi saperi economici, politici, letterari, sociologici, naturalistici, in vista di una precisa alternativa al capitalismo? Fa bene rileggere Marx. Ma guai a ridiventare marxisti.

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