Al museo in Trastevere, fino al 19 gennaio, 140 scatti della fotografa austriaca allieva di Cartier Bresson e amata da Robert Capa che fotografò per Magnum l’America del Dopoguerra

Lo splendore anni 50 nelle foto di Inge Morath al museo in Trastevere

Stefano Ciavatta

Fino al 19 gennaio in mostra 140 scatti della fotografa austriaca allieva di Cartier Bresson e amata da Robert Capa che raccontò per Magnum l’America del Dopoguerra

C’è un lama che spunta da una macchina a Times Square, è il 1957 lo dice la didascalia della foto, dietro c’è lo Shubert Theatre di Broadway, in cartellone una delle 924 repliche del musical “Bells are ringing” che aprì a novembre 1956. Protagonista è Judy Holliday, figlia di una esule russa. Poco più indietro c’è il Broadhurst Theatre dove Rosalind Russell irlandese dal Connecticut porta in scena da ottobre dell’anno prima “Zia mame” di Patrick Dennis (Adelphi), e ci resterà tutto l’anno dopo. E’ la febbrile Broadway raccontata da Jerome Charyn (Saggiatore), non ancora quella riaggiornata ai decenni 70/80 da Nik Cohn in “Storie dal cuore del mondo” (Einaudi) o quella recentissima e senza più epica di Olivia Lang in “Città sola”. C’è un trasporto di animali per le cineproduzioni, manca un furgone e allora il lama con le orecchie dritte tipo antenne si deve accontentare di un taxi, viaggerà cosí fino a destinazione, con il collo immerso nel traffico del mito. La foto è della fotoreporter austriaca Inge Morath, fa parte di un reportage per Magnum, l’agenzia per cui lavora come associata dal 1953.

 

Adesso è in mostra per la prima volta a Roma nell’esposizione dedicata, curata da Marco Minuz, al museo in Trastevere fino al 19 gennaio. 140 scatti, non pochi. Un percorso a più livelli che restituisce un fitto quaderno di appunti. La Morath è un personaggio importante, al di là del gossip in quanto ultima moglie di Arthur Miller, suocera di Daniel Day-Lewis e madre di Rebecca Miller. Figlia di scienziati benestanti, vive l’adolescenza a Berlino al riparo da tutto, ma non lo saranno i suoi vent’anni: studentessa interrotta, operaia sotto le bombe, in fuga da sfollata a Salisburgo. Nel caos dell’occupazione diventa traduttrice per l’agenzia di stampa Usa e poi editor per la rivista fotografica Heute a Monaco. Nel 1949 da Parigi Robert Capa la reclama come redattrice per i suoi lavori con Ernst Haas. Diventa assistente di Henri Cartier-Bresson. Incontra l’ex editor di Life John G. Morris. Insomma tutto il cursus honorum: viene il brivido nel ripensare all’anonimato spericolato di Vivian Maier. Solo dal ‘51 inizia a scattare le sue foto, in tempo di pace: viaggi, ritratti, città, set di film.

 

 

 

I primi lavori li pubblica a Londra, come Egni Tharom, nome rovesciato, fuori dal circuito Magnum. Per il Picture Post, dove conosce il primo marito – viaggio di nozze a Roma – spazia tra la City, i sobborghi e l’aristocrazia. Il suo ritratto più famoso, “la mia sigla musicale”, nasce con il doppio reportage Soho-Mayfair per il magazine Holyday. In un primo pomeriggio caliginoso di fronte a Buckingham Palace Inge Morath consacra all’eternità pop Eveleigh Nash, che da vera aristocratica europea ha lo sguardo di chi non vorrebbe ammettere intrusi: cappello a falde larghe, pelliccia indosso e sulle ginocchia, assisa sul sedile posteriore – di nuovo un’auto – col tetto scoperchiato, e fuori il suo chauffeur umarell. Così Morath vinse un tè a casa Nash: “un appartamento grande e molto scuro, con piante di avocado nella hall, lo status da vedova con guanti neri a rete, l’impegno da chioccia per le debuttanti a corte e l’onore di aver redatto, durante il primo conflitto, un dizionario tedesco-inglese per i soldati al fronte”.

 

I lavori continuano, e stavolta è a tutti gli effetti una fotografa Magnun. Nasce una collaborazione con Robert Delpire, l’editor francese che pubblicò per primo “The Americans” di Robert Frank con cover di Saul Steinberg, il buco più clamoroso dell’editoria americana. La terza automobile della mostra compare proprio con Steinberg. Sul finire dei ‘50 Inge Morath bussa a casa del grande illustratore del New Yorker e Steinberg esce con una busta di carta in testa sulla quale aveva disegnato un autoritratto. Un gioco che andrà avanti per anni, Inge Morath verrà fotografata, troverà altri soggetti, farà a sua volta le foto. L’idea masquerade sarà copiata ovunque. Un’altra immagine icona associata alla ragazza in fuga da Berlino.

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