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Questo è stato l'89 secondo Ranieri, alfiere di un riformismo impossibile

Giuliano Ferrara

Il crollo del Muro. Comunisti, anticomunisti e nient’altro

Pubblichiamo la postfazione di Giuliano Ferrara al libro di Umberto Ranieri “Quella notte del 9 novembre 1989”. L’introduzione è di Biagio de Giovanni. Il volume, pubblicato da Guida Editori, sarà in libreria nei prossimi giorni.

 


 

Umberto Ranieri è il comunista italiano che tutti avrebbero voluto essere o che tutti avrebbero dovuto essere. A Giorgio Amendola spesso interlocutori liberali e conservatori, borghesi di stoffa comune e di spicco, dicevano, con suo civettuolo rammarico, “se tutti i comunisti fossero come lei, caro onorevole”. Ranieri è di quella pasta, e non solo simbolicamente, essendo egli stato per molti anni un dirigente e militante della tendenza riformista e liberale del Pci. Questo racconto e questo diario sono la rappresentazione pubblica e intima di un momento esemplare della storia del secolo trascorso, la caduta del comunismo dalla vasta terra di Russia all’Europa centrale, fino alla scomparsa dei partiti comunisti d’occidente, e quello italiano fu il più espressivo di miti e potenzialità che oggi appaiono inaudite. Ho letto con lo scrupolo dell’amicizia, della comprensione, fatti e fatterelli e memorabilia della trasformazione in una Cosa altra di ciò che era stato il partito di Gramsci e Togliatti. Mi sono reimmerso, io che me ne ero andato via da tempo e che vivevo allora in una distratta solitudine personale, in giorni travestiti da giorni, secondo la formula di Vittorio Sermonti, all’ombra della demolizione del muro che aveva fatto da confine alla città di Berlino. E se ho trovato credibile la cronaca, intelligente la sua trasformazione in storia scritta, avvincente la passione etica della vecchia ma giovane classe dirigente post-togliattiana, mi sono tuttavia ulteriormente persuaso di quanto sempre avevo pensato quando avevo rotto fino alla consumazione ultima, per vie traverse e a poco a poco sempre meno decifrabili, il mio rapporto dei vent’anni e passa con il partito: si può essere solo comunisti o anticomunisti, terze soluzioni non si danno.

 

 

Riformare il comunismo è stata, come si intuisce dal dolore e dall’incauta speranza consegnate a queste pagine, un’ossessione che ha partorito buone idee, migliori intenzioni, relazioni umane intense, visioni e prese d’atto della realtà di non comune perspicacia, ma che il comunismo non si potesse riformare, bensì soltanto tradire in favore del suo storico opposto, l’anticomunismo, è un approdo che nemmeno la sincerità, la benevolenza, la dignità intellettuale di un’esperienza viva possono smentire. Ha scritto Arthur Koestler: “Coloro che si sono lasciati prendere dalla grande illusione del nostro tempo e ne hanno vissuto il corrompimento morale e intellettuale, o si salvano con la dedizione a un’idea contraria o sono condannati a pagare con una nausea che durerà tutta la vita”. Isaac Deutscher riporta queste parole nel suo Eretici e rinnegati (Longanesi & C., Milano, 1955) riflettendo sulla “coscienza dell’ex comunista” e ne comprende tormentosamente il senso, lui che era contrario ai rinnegamenti degli ex giacobini davanti al dispotismo napoleonico e degli ex comunisti davanti al trionfo tirannico dello stalinismo e gli preferiva lo “spirito olimpico” dei Goethe e degli Shelley, l’appartarsi nella rinuncia di fronte al cozzo tra il mondo nuovo repubblicano trasfigurato in impero e la restaurazione della Santa Alleanza.

 

In queste pagine c’è un tentativo, che va riconosciuto, di afferrare un brandello di verità politica sull’arco drammatico del 1989 senza ridere e senza piangere, nello sforzo di intelligere, di capire. Siamo lontani dallo spirito olimpico, dalla rinuncia, e dalla nausea, dall’impellente bisogno della ripulsa. In questo impegno si mescola tuttavia un senso di irrealtà, la nebbia della guerra, the fog of war, e l’obiettivo disperato di superare in pace con la storia una grande crisi esistenziale del mondo contemporaneo si risolve in una non corrispondenza sistematica tra gli eventi e i giudizi che li riguardano. Evitando di passare dall’altra parte della barricata, con tutta la carica di abuso e di raccapriccio che i rovesciamenti di fronte sempre comportano, si resta come nel mezzo del conflitto senza veramente parteciparvi. Ovviamente, siccome la sua è un coscienza formata e limpida di ex comunista in trasformazione, a Umberto Ranieri non sfugge che il percorso politico da un vecchio a un nuovo nome, da una vecchia a una nuova Cosa, è accidentato e pericolosamente simile a un vicolo cieco. Sa che Occhetto è impari alla situazione, sa che la corrente riformista o migliorista del Pci aveva già perso la sua chance quando non era riuscita a imprimere il grande anticipo della Bad Godesberg all’italiana, che era poi un ritardo di decenni sugli approdi delle socialdemocrazie di governo, Craxi compreso. Conosce alla perfezione e racconta con passione le storture alla radice del progetto di passaggio ad altro, le inquietudini conformiste della base ribollente, le derive determinate dall’uso e dall’abuso di pericolose armi ideologiche che avevano sparato per anni le loro cartucce. Tra il crollo di un muro e la ricostruzione su altre fondamenta c’era di mezzo un problema irrisolvibile di ingegneria istituzionale e di architettura ideologica. Ma in tutto questo, invece di prendere il toro per le corna, invece di ricorrere alla divina disumanità della confessione e della contrizione e della conversione, per usare i soli termini, quelli religiosi, che inquadrano davvero quel problema metapolitico che è l’uscita dall’illusione del comunismo, Ranieri cerca la soluzione laica, di compromesso possibile. E sgranando il rosario dei fatti nel paese occidentale in cui l’egemonia culturale del comunismo si era guadagnata un posto centrale nella cultura e nella pratica nazionale della politica, finisce per dare una testimonianza di buona fede e di umanità, di correttezza e di verisimiglianza che stanno alla radice della lenta, lentissima agonia di un’idea di democrazia socialista che era sopravvissuta a sé stessa e non aveva le risorse per riattivarsi.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.