Gioele Dix al Meeting di Rimini (foto via Flickr, Meeting di Rimini)

Essere figlio di un un uomo felice. La paternità secondo Telemaco e Gioele Dix

Piero Vietti

Lo spettacolo del comico al Meeting di Rimini

Rimini. “Vorrei essere figlio di un uomo felice”, confida Telemaco alla dea Atena nel primo canto dell’Odissea, quando lui, figlio di Ulisse, parte in cerca del padre mai conosciuto. E’ la frase che dà il titolo allo spettacolo teatrale che Gioele Dix, attore, comico e regista, porta in scena da qualche anno e che ieri sera ha recitato nell’auditorium della fiera del Meeting di Rimini. Uno spettacolo che prende le mosse proprio dai primi canti dell’Odissea e – tra incursioni letterarie, battute e riflessioni personali – parla del “rapporto doloroso e faticoso, ma anche benefico, tra padri e figli”. E’ il grande assente dell’epoca contemporanea il protagonista del monologo di Dix, che prima di andare in scena incontra il Foglio: “Ho avuto un padre importante, forte – racconta – autorevole, che mi faceva anche un po’ paura: nella vita ho fatto delle cose perché temevo il suo giudizio se non le avessi fatte”. E’ più difficile essere padre o essere figlio? “Essere figli è una condizione che ti ritrovi addosso, essere padre no. Adesso che è mancato, ripenso a episodi della mia infanzia e mi rendo conto che il mio era uno che si poneva il problema di che cosa vuol dire essere padre”. Quello della paternità “è un tema enorme, c’entra con l’etica, la morale, la religione”. Impossibile non pensare a Dio: “Io sono di religione ebraica, ma anche per i cristiani Dio è un padre, un padre eterno, che non ti molla mai, che resta per sempre”. Poiché la grande letteratura ha la capacità di parlare al cuore degli uomini di ogni tempo, Gioele Dix è andato a ripescare una storia, quella di Telemaco, spesso dimenticata. “Il figlio di Ulisse va a cercare il padre perché non può essere se stesso se non sa di chi è figlio”. Banalmente, non può nemmeno ereditare il trono. “Questo è lo stesso viaggio che tutti i figli devono fare – prosegue il comico milanese – Ulisse è un padre assente ma ingombrante, con cui il figlio deve fare i conti”. Un’assenza ingombrante come quella di molti padri oggi, non troppo diversa però dalla presenza vuota di altri: “E’ pieno di padri assenti perché non sanno cosa fare, non si applicano”. Non serve fare chissà che, spiega, e racconta di quando con suo padre fecero un viaggio da Milano a Roma, sei ore di auto: “Non ci siamo detti una parola. Abbiamo ascoltato la radio. Ma eravamo lì insieme”.

 

L’Odissea inizia con un’assenza, e con la domanda di una presenza. Telemaco parte alla ricerca del padre, poi quando capisce che c’è decide di tornare a Itaca e attenderlo. E’ lì che Ulisse si rivelerà a lui. Un’analogia della vita, che è dialogo costante tra domanda e attesa? “Sì. Abbiamo sempre delle aspettative: un figlio si aspetta dal padre certe cose, un padre se ne aspetta altre dal figlio. E’ un rapporto che cambia, in cui l’attesa non finisce mai, in cui il padre può darsi continuamente, fino alla fine. Si arriva a una sorta di equilibrio tra le aspettative, ma dentro a ogni relazione tra padre e figlio c’è un non detto, un mistero che va accettato”. Che cosa è la vita se non attesa di un altro? “In fondo questa attesa si motiva da sé. E’ come l’attesa del Messia da parte di noi ebrei. Non stiamo a preoccuparci se arriva o non arriva, noi lo attendiamo”.

 

Telemaco vorrebbe essere figlio di un uomo felice. “Mio padre ha avuto un’infanzia difficile – racconta ancora l’attore – è dovuto fuggire per le leggi razziali, ha perso un fratello da giovane. Aveva un bello spirito ma si è portato addosso un dolore che noi abbiamo ereditato. Telemaco non è nemmeno sicuro che Ulisse sia suo padre – non molto gentile nei confronti di mamma Penelope – ma sa che vorrebbe essere figlio di un uomo felice, ‘mentre l’uomo che tutti dicono essere mio padre è il più infelice tra gli uomini’. Noi ci portiamo addosso le ferite dei nostri padri”. Il titolo del Meeting di quest’anno, il verso di una poesia di Karol Wojtyla, “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”, sembra fatto apposta per il monologo di Gioele Dix. Per essere noi stessi abbiamo bisogno di fissare lo sguardo negli occhi di un padre? “La sigla finale del mio spettacolo è ‘My father’s eyes’ di Eric Clapton, che dice ‘cerco la verità negli occhi di mio padre’. Fissare il proprio padre vuol dire guardare le proprie origini. Da giovani ci smarchiamo, rinneghiamo la nostra identità, ma è necessario un ritorno. Il titolo del Meeting è splendido perché va alle radici dell’identità: non c’è nulla di più importante di quello sguardo. Quando l’ho letta ho pensato ai neonati che vengono allattati: prima dello svezzamento c’è una fase in cui il bambino succhia il latte dalla madre, si ferma, la guarda, e poi ricomincia a succhiare”. Viene la curiosità di chiedere se il suo modo di recitare queste parole è cambiato dopo la recente morte del padre. “C’è un momento in cui mi commuovo sempre verso la fine, un pezzo che ho scritto con la baldanza di chi maneggia la faccenda della morte ma il papà ce l’ha ancora. Però quando l’ho scritto avevo già un po’ tirato le somme sul nostro rapporto. Mio padre manca, ma sto iniziando a sentire la sua presenza in maniera forte adesso. Lo vedo, lo sento addosso, addirittura faccio alcune cose che lui faceva sempre e io non sopportavo”.

Di più su questi argomenti:
  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.