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De Crescenzo è stato l'idea di se stesso e passerà alla storia senza scavalcarla

Francesco Palmieri

In morte del filosofo-attore-regista-ingegnere-scrittore

A Napoli, scrisse Giuseppe Marotta, ogni idea è una persona. Se è vero, Luciano De Crescenzo non ha rappresentato nella sua persona l’idea del filosofo o dello scrittore, dell’ingegnere o del regista e persino dell’attore: è stato un poco tutte queste cose insieme ma nessuna più di un’altra.

 

De Crescenzo, che se ne va a 91 anni non compiuti il giorno dopo Andrea Camilleri, per le curiose sincronie cui ci ha abituato l’ordinaria falciatura della morte, ha rappresentato insomma l’idea di se stesso e passerà alla storia senza la necessità di scavalcarla. Prima di lui ci riuscì forse solo Totò, che era Totò e basta – e non è poco. Perché Eduardo è stato l’idea del teatro, Massimo Troisi della comicità, Salvatore Di Giacomo della poesia dialettale; perché Enrico Caruso ha incorporato il canto, Mario Merola la sceneggiata, Renato Carosone, Sergio Bruni e Pino Daniele la musica che rispettivamente espressero. Così Renato Caccioppoli fu la matematica come Antonio Cardarelli fu la medicina. E gli scrittori “autenticati”, maggiori o minori, hanno rappresentato la variabile idea della letteratura nelle possibili declinazioni. Cominciando proprio da Marotta, che inventò ne “Gli alunni del sole” il meccanismo narrativo cui De Crescenzo s’ispirò per Così parlò Bellavista nel ’77, il suo libro (poi un film) più famoso, che lo sottrasse alla scrivania con ficus dell’Ibm per proiettare l’ingegnere in una seconda vita di scrittura, cinema, televisione.

 

 

Si perdoni la tentazione della lista fra i napoletani insigni del Novecento, ma un frammento di tutti quanti loro finì in Luciano De Crescenzo, che fu maestro di sorrisi e scrisse di canzoni, che fu allievo di Caccioppoli e spesso ripeté che in Cielo – dove è arrivato, si suppone, ma i dubbi li esprimeva lui – avrebbe voluto incontrare per primo, oltre a sua mamma, proprio Totò.

 

Non si può dimostrare, figuriamoci, ma è ipotizzabile che la fatina dei napoletani, la bella’mbriana, certe volte ci metta del suo. Perché nello stesso palazzo del quartiere Santa Lucia nacquero e crebbero, a pochi mesi di distanza fra il ’28 e il ’29, Luciano De Crescenzo e Carlo Pedersoli, cioè i napoletani più famosi al mondo nella seconda metà del Novecento. Combinazione, direbbe l’ingegnere; non lo so, direbbe il filosofo, certo è che entrambi vissero una doppia biografia cui però Pedersoli campione di nuoto (primo italiano a scendere nei 100 metri stile libero sotto il minuto) dovette dare una cesura diventando Bud Spencer per il grande schermo. Entrambi vissero e sono morti a Roma che è stata, per De Crescenzo, “il quartiere più settentrionale di Napoli” (definizione forse tolta a Tommaso Landolfi, che però la riferiva a Formia).

 

De Crescenzo lascia al mondo quasi 15 milioni di copie vendute e tradotte in ventuno lingue dei suoi innumerevoli libri, dalle Storie della filosofia all’autobiografia Sono stato fortunato, uscita un anno fa. A Napoli lascia qualcosa di più: un affetto trasversale che non s’accenderà da oggi, cosa rara in una città che spesso ama più i figli morti dei figli vivi; alcune indiscutibili asserzioni, come quella che si è sempre meridionali di qualcuno; almeno una domanda, rivolta in Bellavista al boss della camorra impersonato dal cantante Nunzio Gallo: “Ma tutto sommato, non è che fate na vita ’e merda?”. Nel film, del 1984, la sceneggiatura non previde risposta. Difatti, come un caffè sospeso, a Napoli la stanno ancora aspettando benché la domanda sia stata ripetuta più volte.

 

Forse non solo a Napoli, però, ogni idea è una persona. Perché il giorno dopo la morte di Andrea Camilleri, scrittore, si può ugualmente mettere a registro la morte di Luciano De Crescenzo, scrittore? Che sia un accrescimento o una diminuzione, suona più giusto dire che è morta, con la persona, un’idea chiamata Luciano De Crescenzo.