Don Luigi Sturzo (foto LaPresse)

Da Sturzo ai Big Data, un appello ai liberi e forti

Aldo Carera*

Riscoprire il valore e la potenza di quel breve testo nell’universo dell’individualismo digitale

In epoca di grandi cambiamenti l’“Appello ai liberi e forti” ripropone l’affermata e mai realizzata centralità della persona nel mondo del lavoro. A suo tempo, dalla concreta realtà del lavoro deduceva bisogni di tutela e di giustizia sociale e li affidava alle “organizzazioni di classe”, cioè alle rappresentanze sindacali.

In una società, allora come ora, esposta a tendenze disgregatrici, le organizzazioni dei lavoratori venivano elevate a indispensabile espressione di libertà e di forza. Espressioni di libertà in quanto presupponevano la libera scelta delle persone che, associandosi, riportano il tornaconto individuale a comuni interessi collettivi, spezzando le logiche corporative fondate su “preferenze e interessi di parte”. Espressioni di forza in quanto sapevano tradurre in mediazione sociale un’autorevolezza fondata sul consenso e non sulla mera gestione del potere.

 

Nell’“Appello” la rappresentanza popolare del lavoro, liberamente esercitata tramite gli attori sociali, è alimento dei processi di integrazione economica e sociale, educa alla responsabilità e alla costruzione del bene comune in un tempo di profondi conflitti economici e sociali che lasciavano temere il progressivo smarrimento dei valori democratici cristianamente orientati.

 

Affidarlo al suo tempo è possibile e facile. Incollarvi le figurine di Luigi Sturzo, Achille Grandi (e Bertini, Cavazzoni, Grosoli, Longinotti ...: ma chi erano?) significa allinearsi alla quotidianità che si affida agli istinti affascinanti e volubili della memoria, attivati da una ricorrenza rinchiusa nelle celebrazioni di una stagione. Ma i fatti della storia sono altro, sono accadimenti segnati con la durezza delle cose accadute. Il loro essere stati vale anche quando, in altre età, sembrano cancellati i timori di quel 1919 lontano un secolo. Allorquando gente “libera e forte” (per autocertificazione o per capacità di prendere in mano il proprio destino?) ha fondato il Partito popolare e, un anno prima, la Confederazione italiana lavoratori, prime forme di presenza politica e sindacale dei cattolici su scala nazionale, cui sarebbe seguita due anni dopo la fondazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

 

Di lì a poco quella gente dai grandi disegni dovette confrontarsi, secondo percorsi inevitabilmente divergenti, con accadimenti che un giovanissimo Giulio Pastore ha descritto nel 1925 con impressionante e profetica lucidità: “Ciò che ieri appariva quasi un incubo, oggi si vede come una liberazione”.

L’ispirazione ai grandi disegni si fonda sulla consapevolezza che a quelli devono corrispondere azioni adeguate. E gli strumenti sono quelli che il proprio tempo offre: oggi sono reti che veicolano indistintamente le ricchezze e le miserie del mondo, big data che contano, misurano, valutano e scartano. Tecnologie epocali che alimentano la disintermediazione e, scomparse le organizzazioni di classe, accentuano le difficoltà delle grandi confederazioni in un mondo del lavoro privo di antiche e nobili simbologie, in un quadro sempre più esteso e complesso di interazioni economiche e sociali che sfidano la fiducia ed esigono nuove forme di tutela. Nell’universo dell’individualismo digitale la potenza dell’“Appello” vale per la fiducia e la speranza racchiuse in quel breve testo. Ma vale ancor più nel suo essere stato efficace sintesi delle volontà, degli interessi e delle relazioni costruite nei territori, nelle leghe, nelle cooperative, tra quella gente di cui i firmatari si facevano interpreti nel Paese.

 

*professore di Storia economica presso l'Università Cattolica

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