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Con la crisi della società aperta, il pessimismo diventa un'autoprofezia

Giulio Meotti

A proposito di All’alba di un mondo nuovo, il saggio dei “liberali realisti” Angelo Panebianco e Sergio Belardinelli

Roma. “Il pessimismo rischia di funzionare come una profezia che si autoadempie”, scrive Angelo Panebianco nel suo nuovo libro scritto assieme a Sergio Belardinelli, “All’alba di un mondo nuovo” (Il Mulino). E in effetti questo testo di due studiosi e intellettuali inclassificabili (nel libro si definiscono “liberali realisti”) sembra offrire il fianco ai declinisti e ai populisti, cui Panebianco e Belardinelli si oppongono.

 

Il libro è un epicedio del liberalismo, una denuncia dell’incoscienza culturale in cui si consuma la moderna tragedia della secolarizzazione, della crisi da legittimità di un pensiero debole, debolissimo. Emerge tutta la fragilità di una società integrata che si regge soltanto ormai su un consenso bulgarizzato. L’Europa, scrive Panebianco, è battuta dal vento della crisi demografica: “Smettere di fare figli determina, sul piano macrosociale, mutamenti di vasta portata”, afferma l’editorialista del Corriere della Sera di un continente che si disintegra mentre non integra gli immigrati, con “le seconde e le terze generazioni che si rivelano le più restie all’integrazione”. E qui Panebianco dice che né il multiculturalismo inglese né l’assimilazione laico francese hanno funzionato.

 

Si parla di una “insicurezza collettiva dell’Europa”, di un occidente che ha smesso da tempo di “fungere da motore propulsore dei processi di democratizzazione in giro per il mondo”, di una “melassa politicamente corretta” scambiata per diversità o pluralismo intellettuali, degli Stati Uniti che hanno rinunciato al loro ruolo di “nazione indispensabile” (ha iniziato Obama e ha proseguito Trump, dice Panebianco) e di un “antieuropeismo montante che è più l’effetto che non la causa” della crisi dell’Unione europea. Si parla anche di “apparati burocratici ostili e del tutto incapaci di generare senso di appartenenza e cittadinanza”.

 

La crisi è anche colpa del web, che doveva essere un prato rigoglioso di progresso e aperture, invece “lo sviluppo tecnologico ha cessato di apparire come benigno per assumere tratti inquietanti”. E qui non c’è soltanto la softwar elettorale.

 

Ci sono soprattutto “fenomeni di chiusura cognitiva che gli psicologi denominano groupthinks”. E’ il pensiero di gruppo, l’echo chamber, la libera opinione, che fu il telaio della democrazia di tipo classico, fondata sulla discussione e sulla critica, ma che ora sta cedendo il passo all’opinione prefabbricata e autoreferenziale. “E la radicalizzazione delle opinioni politiche ne è un sottoprodotto”. Anche qui, Panebianco depista i liberali classici e riprende i temi della “Folla solitaria” di David Riesman, la ricerca della sicurezza sociale per il tramite di una disposizione gregaria.

 

Cosa ci attende, si domanda Panebianco? “Lo scenario futuro più probabile è una Europa debole e divisa che diventa l’oggetto del contendere delle grandi potenze: Stati Uniti, Russia e Cina”. Non tutto è ancora perduto, come dicono i declinisti ortodossi, ma “il futuro del mondo intero dipende da quanto accadrà alla società aperta occidentale”, perché “se viene meno il primato occidentale non c’è ordine internazionale possibile”. E se non risolve questi problemi, la società aperta occidentale è spacciata. Per ora non arrivano buoni segnali dall’Europa, che è come nel verso del poeta Salviano di Marsiglia (V secolo): moritur et ridet.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.