Una cartolina storica di Unter den Linde, a Berlino

Fantasmi a Berlino

Giuseppe Marcenaro

Nella città rinata dalle ceneri del Muro, strade, piazze e palazzi parlano ancora delle follie di Weimar e degli “anni dell’incubo”

Nella notte è nevicato. Al mattino, per le strade, non si incontra nessuno. Percorrendo la Friedrichstrasse congelata, per un attimo ho un abbaglio, ma tutto si gioca nella testa. Tra profumerie e negozi di moda dalle luci ancora spente, mi illudo di sorprendere le porte corrusche del Kit-Kat Club dove si esibiva Sally Bowles, l’eroina di Christopher Isherwood nel romanzo “Goodbye to Berlin” (“Addio a Berlino” nell’edizione italiana Adelphi), da cui è stato tratto il film “Cabaret”, con una Liza Minnelli, imitazione Marlene Dietrich, a cavallo di una Thonet, mentre canta “Come to the cabaret”. Sally si chiamava in realtà Jean Roos. A svelare il mistero fu Stephen Spender, il maliziosissimo amico di Isherwood, convocato a Berlino con un telegramma: “Come, here the boys”. Ragazzi carini e disponibili. Una sterlina il prezzo per una notte. Spender arrivò di corsa in compagnia di Auden. Sally e Isherwood, come oggi ricorda la lapide, abitavano in una pensione al numero 17 della Nollendorfstrasse, nel centro della Berlino gay, dove un’altra lapide commemora i cinquemila omosessuali uccisi nei campi di concentramento nazisti. Spender sostiene che Jean fosse una pessima attrice, non sapesse cantare e vestisse in maniera vistosamente eccentrica. Aveva però una coscienza politica. Partecipò alla guerra di Spagna. Più tardi si sposò ed ebbe un figlio. Di lei si sono perdute le tracce.

  

L’illusione di trovare il Kit Kat Club dove si esibiva Sally Bowles, l’eroina di Isherwood che al cinema ha avuto il volto di Liza Minnelli

Girando per le strade innevate di Berlino affiorano alla mente i ritratti di chi ha interpretato le varie parti sul palcoscenico dell’Unter den Linden, il viale dei tigli, oggi con gli alberi spogli. Neri. Il silenzio del mattino deserto consente di naufragare nell’invisibile. L’immaginazione genera visioni. Il fruscio della memoria mostra ciò che è stato. Basta lo scorcio di un edificio, un nome. Berlino, inutilmente solida, sembra una scenografia sfondata. La vetrina impolverata di una cartoleria del Gendarmenmarkt espone, assieme a un moscone stecchito, “antichità” del tempo della Repubblica di Weimar: la banconota da un miliardo di marchi, l’affiche del 1923 di Käthe Kollwitz con i volti stralunati dei bambini “che muoiono di fame” e la riproduzione di un disegno di George Grosz, “Terrore nelle strade”, con una sguaiata figura che ricorda “L’ultima risata” di Murnau.

 

La storia è figlia del silenzio. Berlino, con le spalle al passato, sembra oggi girata da tutta un’altra parte, ma il suo tempo è totalmente presente. E’ una delle pochissime città al mondo dove è rimasto indelebilmente stampato nell’aria tutto quanto i tedeschi hanno cercato diligentemente di cancellare. Soltanto libri capaci di evocare gli “anni giusti” resuscitano memorie. Un tentativo di qualche tempo fa, da noi, è “Berlino città d’altri, Il turismo intellettuale nella Repubblica di Weimar”, di Luigi Forte (ed. Neri Pozza, 300 pp., 18 euro).

 

Al tempo della grande inflazione la Repubblica di Weimar viveva di una strana superiorità. Si respirava ossigeno babilonese tagliato con la cocaina (guardate in tv, il sabato in seconda serata su Rai4, la ripresa in chiaro della prima stagione di “Babylon Berlin”). Tutto era consentito perché c’era la coscienza che il tram di quella vicenda umana fosse arrivato al capolinea. Gli “anni dell’incubo”, tra il 1933 e il ’45 sono rimasti fortemente marcati come un indelebile tatuaggio per le strade di Berlino.

 

Dove stava il Romanisches Café, all’incrocio tra la Budapester Strasse e la Tauentzienstrasse, oggi si può vedere l’Erotik-Museum, con il sesso di ogni epoca esibito attraverso le più curiose performances corporee dell’uomo. Al Romanisches Café scontavano le loro esaltate depressioni scrittori e critici, pittori, musicisti, attrici e una schiera di bizzarri che non avevano mai pubblicato un libro, mai maneggiato un pennello, mai scritto sonate. Ogni giorno arrivava Paul Cohen-Portheim, autore di raffinate monografie su Parigi e Londra. Aveva una testa grossa, con radi capelli morti e la fronte convessa tipica dell’intellettuale vegetariano. Arbiter elegantiarum del Romanisches Café, Cohen-Portheim viveva a Berlino con il cuore a Parigi.

 

All’Adlon, tra un giro di birra e l’altro, Ribbentrop e Göring illustravano ai giornalisti stranieri e ai diplomatici la nuova Germania

I recenti e americanissimi e assurdi grattacieli della Potsdamer, pura esercitazione edonistica di architetti imaginifici, simili a falansteri di periferia, con attorno grandi spiazzi dove sono state portate via soltanto ieri le macerie, riempiono lo spazio aereo occupato dal salon Cassirer, l’estremo tentativo della vecchia Europa per dare un po’ d’eleganza alla Repubblica tedesca e alla socialdemocrazia. Paul Cassirer, un editore di talento, nel suo appartamento da qualche parte in questa dimensione inidentificabile di una città fisicamente svanita, riceveva con la grazia magistrale del mecenate democratici, socialisti, rivoluzionari. Per essere ammessi, Cassirer chiedeva soltanto la firma sul registro di casa. Collezionava autografi. Abitudinari ai sontuosi buffet, funzionanti con camerieri in polpe, in saloni strailluminati e protetti da spesse cortine di velluto rosso alle finestre, Eduard Bernstein, deputato socialista al Reichstag; Rudolf Hilferding, ministro delle Finanze; Hermann Müller, cancelliere della Repubblica di Weimar, arrivavano ogni sera sempre più perplessi e incapaci di capire il verso del guazzabuglio economico e politico in cui era caduta la loro repubblica. Julij Martov, tristo leader dei menscevichi riparato a Berlino dalla Russia; Aleksandr Kerenskij, gelido primo ministro dell’ultimo governo provvisorio russo allo scoppio della Rivoluzione d’ottobre; James MacDonald, sconsolato fondatore del Partito laburista; Otto Bauer, leader dell’austromarxismo, erano invece gli “ospiti” di passaggio mischiati a fuoriusciti russi che si erano fatti invitare nel salotto per recare le ultime cifre ufficiali dei massacri di Lenin; gente dai nomi ignoti con tanta dottrina rivoluzionaria, tanto marxismo, tanto sindacalismo, tanta internazionale. Tipi che posavano agognanti occhi loschi di chi ha la sifilide ereditaria, sulla stellata collezione di porcellane antiche di Cassirer, esposta nelle vetrine dei salotti. Collezione da far invidia al grifagno Utz di Praga. I rendez-vous chez Cassirer imitavano in “privato” le pantomime del Lady Windermere, dell’Eldorado, cabaret alla moda della Friedrichstrasse dove tutti facevano gli stessi discorsi facendo finta di non farli, nel clima di una voliera di confusionari che vivevano gaiamente su una pentola a pressione. Mescolandosi in una città che si nutriva di energia umana.

 

Quegli anni berlinesi non sono soltanto i fantasmi di chi li guarda nella memoria. Il tripudio di immagini monumentali ed eleganti si trova nelle postcard “vecchia Berlino” in vendita oggi nelle librerie. La Germania presenta ai turisti i “parenti per bene” dei quali si vendono i ritratti in cartolina: Einstein, Husserl, Max Weber, Strauss, Schönberg, Thomas e Heinrich Mann, Gerhardt Hauptmann, Brecht, Reinhardt. Le foto di scena dei film di Lang. Tutta gente che attorno al 1933 tagliò la corda per sopravvenuta infungibilità. E le riproduzioni a colori (costano 2 euro l’una) dell’arte “degenerata” attraversata da contraddizioni, debolezze e ombre di Kirchner, Heckel, Nolde, Kokoschka, Beckmann Grosz, Dix e company, con ovviamente i giocosi e turbolenti dadaisti.

 

Nell’Unter den Linden, ovattato dalla neve, a oltre settant’anni dalla fine della guerra, la visione della storia è figlia di meditazioni. La scommessa con il passato si gioca nella totale assenza di rumori. Avvenimenti e volti sono rimasti. Sono le sequenze del più realistico colossal horror mai girato sulla faccia della terra.

 

Accanto all’Opera di Stato nella ex Franz Joseph Platz (oggi Bebelplatz), di fronte alla Humboldt Universität, dove aveva insegnato il professor Georg Wilhelm Friedrich Hegel, si vede il primo rogo ufficiale dei libri. E’ il 10 maggio 1933. Una sera dolcissima. Un manipolo di studenti filonazisti, il Deutsche Studentenschaft, ha assaltato le biblioteche dell’università e trasportato qui i libri degenerati. Dal mucchio spunta “Almansor”, la tragedia di Heinrich Heine che reca una profetica epigrafe: “Dove si bruciano i libri, alla fine si bruceranno gli uomini”. È’ ancora lì a terra. Mi sarebbe facile raccoglierlo. Mi frena lo sguardo vuoto di espressione di uno sconosciuto berlinese che passa, e che al contrario di me, nel grande spiazzo gelato non vede il rogo che proietta sulle case uno scenario da notte di Valpurga. Il dottor Josef Goebbels, è lì, sghembo, col suo piede deforme, illuminato dall’incendio. Parla con voce metallica e angolosa: “Uomini e donne tedeschi! Siete nel giusto, affidando alle fiamme lo spirito del passato in questa tarda ora notturna. E’ un atto forte, grande e simbolico, un atto di testimonianza agli occhi del mondo. Illuminato dalle fiamme il nostro giuramento sarà al Reich, alla Nazione, al nostro Führer”.

 

Scrittori e critici, pittori, musicisti, attrici scontavano le loro esaltate depressioni al Romanisches Café. Al suo posto oggi l’Erotik-Museum

L’Unter den Linden incrocia con la Wilhelmstrasse, dove stava la cancelleria. Si vedono qui plotoni e compagnie in camicia bruna e in uniforme delle più elitarie SS la cui marcia risuona sotto i tigli. Chiunque non si fermi a salutare i loro stendardi nibelungici e le loro bandiere corre il rischio di venire pestato sul posto. Una parata notturna elettrizza gli spettatori assiepati lungo le strade. Il nastro senza fine delle torce passa dissolvendosi. Le bande sgargiano vecchie arie marziali. Il cielo è rosso carminio come nella rappresentazione del “Tannhäuser”. Nella notte inondata dalle fiaccole, pressati gli uni sugli altri, i tedeschi raggiungono l’apice dell’orgasmo, il più alto stato dell’essere che l’uomo germanico conosca: il dissolvimento dell’anima e della mente.

 

Il numero 78 della Wilhelmstrasse, dove si trovava la cancelleria, oggi è diventato 94 e ospita un ristorante indonesiano. All’87, al posto del ministero degli Esteri, c’è una hostaria italiana con un menù di specialità piemontesi. Al fondo del viale, sulla piazza “interna” della Brandenburger Tor, invece, c’è ancora l’hôtel Adlon: lì si tenevano le Bierabend – serate intorno a una birra – offerte ai corrispondenti stranieri e ai diplomatici dal gelido Rosenberg, da Ribbentrop, un mercante di vini e champagne che aggiunse un von al proprio cognome quando Hitler lo nominò ministro degli Esteri; da Göring che arrivava facondo con indosso la nuova divisa dell’aviazione azzurra e rossa, da lui stesso disegnata. Tra un giro di birra e l’altro illustravano ai giornalisti la nuova Germania: “Il sistema di vita tedesco è fissato in maniera definitiva per i prossimi mille anni! Per noi, l’isterico XIX secolo è finalmente terminato. Non ci sarà rivoluzione in Germania per i prossimi mille anni”.

 

Accanto all’Opera di Stato, di fronte all’università dove aveva insegnato Hegel, il rogo dei libri del 10 maggio 1933

Attorno all’hôtel Adlon nell’aprile 1945 si svolse l’ultima battaglia tra i ragazzini della Gioventù hitleriana, dai quattordici ai sedici anni, e le truppe sovietiche che ormai avevano conquistato Berlino. L’hôtel, curiosamente risparmiato dai bombardamenti, andò in fiamme nei primi giorni del dopoguerra. Si parlò di incendio doloso. Si vollero forse esorcizzare le ombre che circolavano ancora là dentro. Magari il fantasma di Mussolini, che nel 1937, durante la visita ufficiale a Berlino, vi era venuto a fare di nascosto una doccia. E Hitler si offese.

 

La piazza davanti all’ hôtel, offuscata dal fumo, è ingombra di motociclette arrugginite, biciclette contorte, più in là un furgoncino con la scritta “Emmerhase”, un cesso in ceramica, reti da letto, resti di un barricata rimossa. Una Volkswagen color polvere è crivellata di colpi. Un morto in decomposizione sta ancora al volante. Dagli altoparlanti pubblici Goebbels promette l’Armata Wenck che porterà libertà e vittoria ai berlinesi. I lampioni barocchi sono contorti, disciolti. Un grosso ratto attraversa il marciapiede crepato come dopo un terremoto.

 

La Brandenburger Tor è il fondale di una scenografia. Un’architettura come catarsi di una drammatica seduta psicoanalitica.

 

Questa mattina. oltre la porta, sulla neve soffice del parco del Tiergarten non un’orma. Non è passato nessuno. Gli alberi nudi sembrano tinti di petrolio. Sul largo marciapiede che costeggia la Eberstrasse si distende l’ineffabile maestà della nevicata. Solo in un punto è percorsa da un solco netto. Qualcuno è passato in bicicletta. Su quella traccia si avventa senza ragione uno stormo di corvi.

 

Al di là della strada un ampio spazio. Sotto la neve, nascosto da una colata di cemento grande quanto un campo da tennis, sta la vestigia del luogo ove si svolse l’ultimo atto della rappresentazione. Il bunker di Hitler non si vede, ma è presente nel silenzio. Là sotto sussiste ancora l’antro che ospitò l’estremo cortocircuito della storia tedesca. I capoccia della Ddr avevano deciso di farlo saltare prima di costruire nuovi palazzi. Le cariche di dinamite risultarono insufficienti. Impossibile distruggerlo senza mettere a repentaglio l’intera zona. Allora venne ricoperto. L’ultimo rifugio del Führer fu rinvenuto “casualmente” nel 1998 dalle trivelle di un cantiere. “In realtà sapevano dove si trovava, ma lo avevano voluto dimenticare”. In silenzio.

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