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Matera Duemilasempre

La città che scava nella roccia ora guarda le stelle

Simonetta Sciandivasci

Ci sono generazioni nuove che non hanno ereditato la vergogna della miseria, che conoscono la propria storia e sanno come trasformarla in una risorsa preziosa

Su Matera hanno tutti ragione, o almeno una buona ragione. Gli entusiasti e gli incazzati. I delusi e gli illusi. Gli spavaldi e i timorosi. I gufi e le allodole. Renzi e Meloni. Sgarbi e Montanari (persino lui, però poco). Perché Matera, e questo è il suo dramma e la sua salvezza, è un “oggetto imprendibile”. Un mostro. Un prodigio. Un monumento alla coabitazione di opposti, destinata per questo all’irrisoluzione.

 

Vi dicono che è fatta di tufo, ma è scorretto: è fatta di calcarenite, una sabbia sedimentata fino a consolidarsi in roccia

E’ stata mare e ne porta le tracce dappertutto. Ci sono conchiglie quasi intatte ovunque, nei massi dei muretti, nei vuoti delle grotte

Se ne sta aggrappata alla roccia che l’ha sputata fuori, abbarbicata sul ciglio di un burrone, come un gargoyle, eterna ma mutabile, in fondo inconoscibile, irrintracciabile.

 

E’ stata mare e ne porta le tracce dappertutto. Fuori di sé, nella diga di San Giuliano, a pochi chilometri dal centro abitato, dove è stata ritrovata la carcassa di un cetaceo, una delle più antiche al mondo (s’attende, con imperterrita speranza, che qualcuno faccia qualcosa per salvare il fossile dal deperimento). E dentro di sé, nei Sassi, il suo rione anagrafico e, adesso più che mai, la sua cartolina, il suo marchio ufficiale. Vi dicono che è fatta di tufo, ma è scorretto: è fatta di calcarenite, una sabbia sedimentata fino a consolidarsi in roccia e i cui granelli sono composti di calcare e fossili di organismi marini. Ci sono conchiglie quasi intatte ovunque, nei massi dei muretti, nei basamenti dei palazzi, nei vuoti delle grotte. Quando, un milione di anni fa, il mare s’è ritirato, Matera, che non era ancora Matera, non era ancora una città di uomini, perché non c’erano ancora gli uomini, ha preso a scavare per cercare l’acqua sotterranea, quella che la terra assorbe e mantiene sotto gli strati argillosi. All’arrivo dell’uomo, la natura aveva già badato a costruire un sistema idraulico perfetto, aiutata dalla docilità della roccia, che aveva conservato memoria del suo mare e s’era lasciata quindi modellare, infiltrare, fendere dalla pioggia, che nei secoli l’aveva attraversata creando cunicoli, corridoi, vasche, cisterne, grondaie: all’uomo non restava che replicare, potenziare, ampliare il lavoro della pioggia, la sua cooperazione con il terreno. Siamo abituati a città costruite lungo i fiumi o le coste che hanno arginato; città che sono intervenute sul territorio sul quale sorgono rendendolo funzionale in tutto e per tutto ai propri bisogni; città dove la natura s’interrompe e s’inurba; città colonizzatrici. Matera è un’eccezione straordinaria: s’è insediata senza insidiare niente. La relazione che ha istruito con la terra sotto ai suoi piedi è stata di simbiosi, non di sfruttamento. E siccome L’acqua s’impara dalla sete e la terra dagli oceani attraversati (Vasco Brondi) l’uomo non s’è arreso alla roccia e al suo vuoto apparente: ne ha intuito il potenziale, ne ha studiato il mistero, ne ha penetrato il genio ingegneristico. Così, prima ancora di disporre del bronzo, ha scavato, costruito e collegato tra loro cisterne gigantesche, capaci di contenere tonnellate d’acqua. La vita urbana attecchisce in prossimità di un rigoglio di risorse, di un’abbondanza di condizioni favorevoli. Matera no, è nata su un ex mare che non aveva lasciato dietro di sé nient’altro che pietra. In quella pietra, tuttavia, l’intelligenza umana ha riconosciuto quella della natura. Così nasce il progresso: da uno sguardo di fiducia che illumina d’ambizione una risorsa anonima. E’ questo che la città ha da dire al mondo. Questa è la valenza più profonda di quella “Lucania che è nel cuore di ogni uomo”, di cui scrisse Carlo Levi. Questo, soprattutto, Matera ha da dire all’Europa, e il dossier con cui ha vinto la candidatura a capitale europea della cultura 2019, il 17 ottobre del 2014, ne è il documento più valido, esteso, denso. Nei quattro anni che la città ha trascorso a prepararsi a questo evento, raccontato malamente come “occasione di rinascita del sud”, mentre invece Matera non voleva né vuole rinascere bensì riprodursi, il senso profondo di quel dossier, di quell’universale, s’è disperso. Era inevitabile? E chi lo sa. E’ irrecuperabile? No. E non per ottimismo, ma perché disperdere non significa perdere. E perché Matera è imbattibile. La si può stordire, infiocchettare, ripulire, imbarazzare, incoronare, ma snaturare e silenziare no. Ha il suo burrone, che conserverà la sua eco. Ha la sua roccia porosa che le consentirà di assimilare, senza venire assimilata.

 

Nella pietra l’intelligenza umana ha riconosciuto quella della natura. Uno sguardo di fiducia che illumina d’ambizione una risorsa anonima

Una città che è stata fenditura carsica, cittadella impiegatizia, bella addormentata del sud, ora è capitale internazionale

Quattro anni fa, quando la Giuria internazionale di selezione, presieduta da Steve Green e composta da 13 membri, decretò la designazione di Matera a capitale culturale dell’Unione, lo fece impiegando un criterio di selezione preciso: la partecipazione dei cittadini. E’ interessante che l’Europa, proprio nell’anno più delicato di questa sua fase di disfatta, pochi mesi prima delle elezioni più decisive della sua storia, quelle che potrebbero capovolgerla, azzerarla, frantumarla, nell’anno in cui a guidarla e rinnovarla si propone chi l’ha sempre detestata, chi non s’è mai sentito cittadino europeo, abbia la sua capitale culturale in una città così periferica, arroccata, dura, impervia, rafforzata e insieme infragilita dal consumo turistico. Quattro anni fa, lo scenario di oggi era un brutto sogno nel cui valore premonitore avrebbero scommesso in pochi. Nonostante questo, il senso di Matera capitale è saldo, potente, forse addirittura raddoppiato. E’ così commovente questo paradosso per cui ora che l’Europa sembra azzerarsi, fallire, rotolare e farsi a brandelli, incapace di rispondere dell’accusa di aver lasciato che le grandi potenze esercitassero una centralità cannibale sui paesi più deboli, e di aver privato i cittadini della loro sovranità, la sua cultura venga rappresentata nel mondo da un posto che per secoli è stato abitato da poveri cristi, ultimi della terra che il cielo di Dio, quello del Regno promesso loro, neppure alzavano gli occhi per guardarlo. Una città che è stata fenditura carsica, villaggio neolitico, riparo per gli abitanti della costa jonica in fuga da Annibale, colonia di schiavoni (così si chiamavano, nel Trecento, i popoli dell’Adriatico, e in particolare gli albanesi), cittadella impiegatizia, feudo di uno squinternato signorotto campano (poi accoltellato dai materani stanchi delle sue vessazioni), vergogna nazionale, bella addormentata del sud, capitale internazionale. Una città che come poche altre ha visto la sua storia scandita dagli espropri, dalle cancellazioni coatte e violente delle sue identità in nome dello sviluppo. E che nonostante questo, e nonostante si trovasse nel Mezzogiorno più povero, più depauperato, brigantesco da un lato e obbediente dall’altro, ha tenuto fede sempre alla medesima intuizione: il progresso è fiducia in una risorsa apparentemente anonima.

 


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Una città che è arrivata, dall’entroterra mediterraneo, al cuore dell’Europa, senza avere un treno. Scortata da uomini, e tra di loro c’era l’attuale sindaco Raffaello De Ruggieri, che avevano poco meno di vent’anni, quando il governo De Gasperi varò la legge speciale per lo sfollamento dei Sassi. Arrivò lo stato e disse: qui si muore, è una vergogna, via tutti, fuori da qui, vi portiamo nei palazzi, vi diamo la tv. Ed era vero che si moriva, ma era pure vero che si viveva, e certe volte si era felici. Questo non si dice mai, perché non ne ha scritto nessuno, perché è stata più forte la narrativa della “dolente bellezza”, ma ci sono alcune foto che Fosco Maraini e Cartier-Bresson scattarono nei Sassi negli anni Cinquanta e tutto c’era, in quelle immagini, tranne che un’umanità collassata, riversa, imbestialita. Il punto è sempre lo stesso: Matera è imprendibile, è un mostro selvatico, e quando le si fa del bene le si fa anche del male. E’ stato così, sarà sempre così. Comunque. Diciassettemila persone vennero costrette ad abbandonare le proprie case e furono riallocate in nuovi rioni (i borghi rurali di La Martella, Venusio, Picciano-Timmari, Torre Spagnola, Santa Lucia, Agna). Sin da allora quegli uomini tra cui il sindaco hanno lavorato affinché fosse chiaro che Matera era assai di più di un quartiere malsano e di una testimonianza terribile di arretratezza.

 

I borghi rurali sono esclusi dai circuiti turistici, eppure è lì il dramma materano, la sua lezione di storia rimossa a colpi di spugna

Il treno, la nuova stazione e uno degli alberghi più belli del mondo secondo il Times. Una energia irradiata in tutta la regione

I posti dove quell’arretratezza è stata poi trasportata, nell’illusione che un uomo possa essere trapiantato e che una coabitazione come quella unica dei Sassi tra uomo e natura potesse essere riprodotta artificialmente, sono oggi gli unici ancora intrisi della parte più dolorosa ma esemplare della storia materana. Quella storia di cui i Sassi hanno portato il graffio e l’urlo fintanto che non sono stati trasformati nel borgo romantico e godereccio che i turisti vengono a fotografare. I borghi rurali sono incredibilmente esclusi dai circuiti turistici o, se preferite, dei visitatori, eppure è lì il dramma materano, la sua lezione di storia, rimossa a colpi di spugna, di alberghi stellati e interstellari; è lì la prova di come si fallisce quando si vuole emancipare forzosamente un popolo. A ideare e costruire quei borghi, per salvare i materani che nei Sassi continuavano a morire e sottoporre i rioni a una bonifica che poi si trasformò in anni e anni di abbandono, arrivarono a Matera tra gli anni Cinquanta e Sessanta architetti da tutto il mondo. Quella fase di sperimentazione urbanistica, una delle più interessanti e complesse della storia del Novecento, chiede oggi uno studio, una rielaborazione, una chiusura e una riapertura; un laboratorio permanente. Chiede una storicizzazione. Chiede la parola letteraria. Chiede lo sguardo e la comprensione del visitatore. “Matera è importante non solo per i Sassi ma anche per il modo in cui, nel Dopoguerra, con la legge De Gasperi, vennero esplorate nuove modalità di costruzione del concetto di comunità”, dice al Foglio Stefano Boeri, che ha firmato il progetto della nuova stazione delle Ferrovie Appulo Lucane, che collegano la città con la Puglia e la stazione centrale di Bari (è un file assai controverso quello del treno a Matera: il collegamento più vicino alla rete di Trenitalia è a 30 chilometri dalla città, nella piccola stazione di Ferrandina, quella dove Amelia Rosselli, febbricitante, venne ritrovata a vagare quando, da Roma, arrivò in Basilicata per il funerale di Rocco Scotellaro, il suo Rocco, il poeta di cui Proietti ha cantato i versi sul palco della Rai, durante la cerimonia di inaugurazione del 2019, lo scorso 19 gennaio). Dice ancora Boeri: “Matera è un museo vivente dell’urbanistica contemporanea della seconda metà del Novecento. Ho visitato di recente il quartiere Spine Bianche, dove c’è il lavoro di De Carlo, e il borgo di La Martella: in entrambi ci sono elementi di grande innovazione, in larga parte ingiustamente abbandonati. Non bisogna dimenticare che quegli edifici hanno ospitato una popolazione che in modo molto drastico e autoritario è stata spostata dai Sassi, e ha continuato a tornarci, volendo disperatamente riabitarli. I figli di quelle persone, invece, hanno vissuto i Sassi con un senso di profonda vergogna. Si tratta di una vicenda fondamentale per capire l’Italia, non solo Matera: un lungo percorso di accettazione di condizioni di vita disperate e poi di grande riscatto, che però è passato attraverso un momento di vergogna per la propria miseria, per le origini umili. Visitare anche questi quartieri, che oggi sono vivi, e tengono accesa la realtà originaria dei Sassi, è il solo modo per mantenere la città saldata alla sua identità ed evitare che una turisticizzazione eccessiva le faccia perdere il contatto con la sua storia”. Che storia è, quella di Matera? “Quella di una relazione tra il contesto naturale e la capacità umana di abitarlo”. Che rischi corre la città? “Di lasciare un pezzo di sé indietro. Significherebbe disperdere l’energia che ha portato al 2019 e che, nei prossimi mesi, non potrà che venire potenziata dall’attenzione mondiale sulla città”. E’ stato faticoso realizzare il suo progetto? “Abbiamo cominciato a lavorare in febbraio e abbiamo consegnato in maggio l’esecutivo. Il cantiere ha aperto a fine luglio e, nonostante i livelli di lavoro fossero tre e molto diversi (quello sotterraneo, quello della piazza e quello della pensilina alta 12 metri) e richiedessero ciascuno una propria modalità di lavoro, abbiamo chiuso in modo tale che il 19 gennaio la stazione è diventata praticabile. Entro il 19 aprile sarà completata”. Di fatto, otto mesi di lavoro. “Mi sembra una bellissima dimostrazione di come, quando si vuole, al sud si riescono a fare cose che io vedo fare in Cina o in Nord Europa”.

 

Non sono mancate le polemiche. Una sintesi: ci date l’archistar, ma non ci date il treno. Ora. Per quanto sulle molte carenze infrastrutturali della città si sarebbe potuto intervenire in questi quattro anni, è stato piuttosto utopistico credere che del collegamento ferroviario, che ha una storia di decenni di travaglio e guai, si potesse incaricare il 2019. Il 2019 è stato, è, dovrà essere un impulso. L’opera di Boeri, infatti, non è stata realizzata con i fondi europei pervenuti alla Fondazione di Matera 2019, che molto ha sprecato, ma faremo i conti più avanti, passata la festa vedremo di non gabbare lo santo. A commissionare l’infrastruttura, che servirà a riqualificare una piazza fondamentale per lo sviluppo del centro direzionale della città, sono state le Ferrovie Appulo Lucane, odiate dai pendolari per la pessima condizione dei vagoni (recentemente rinnovati), la lentezza del servizio (da anni, da sempre, arrivare a Bari, da Matera, in littorina FAL, porta via più tempo che in macchina: a Zenone sarebbe piaciuto molto come paradosso), la scarsità delle informazioni (provate a consultare su internet un tabellone degli orari, fateci sapere quali danni riportate, oltre allo strabismo perpetuo).

 

Si può essere capitale europea ed essere raggiungibile come un villaggio Tuaregh? Margareta Berg è arrivata a Matera, da Berlino, quando andava assai peggio. Eppure, ha aperto “Grotte della Civita” uno dei dieci alberghi più belli del mondo secondo il Times. Un albergo di lusso senza frigorifero, senza extra comfort, senza niente di quello che associamo alle strutture ricettive stellate. Cominciavano gli anni Novanta, e i Sassi sarebbero stati nominati patrimonio dell’Unesco nel 1993, grazie soprattutto ai dossier di Piero Laureano, architetto, urbanista, consulente Unesco per le zone aride, la civiltà islamica e gli ecosistemi in pericolo (il suo “I Giardini di pietra”, Bollati Boringhieri, 1993 è il libro che dovete leggere per capire Matera; Ars escavandi, La prima delle quattro grandi mostre che sono i quattro eventi cardine del 2019 materano, è curata da lui). Negli anni Ottanta e Novanta nei Sassi ci si andava a bucare. Molte case erano ridotte a immondezzai. Le stesse case sormontate da necropoli che poi sono state coperte, con Laureano che s’incazzava e diceva, sciagurati, che accidenti fate, Matera è tutta lì, le civiltà mediterranee sono tutte lì, in quel capovolgimento, la vita sotto e la morte sopra – andate a Matera e fateci caso: molte case dei Sassi, in cima, hanno antiche tombe, e questo dà una misura esatta del movimento discendente della città, di quel suo svilupparsi scavando e non elevandosi che le è coessenziale.

 

I genitori di Margareta Berg avevano pronta per lei una carriera da diplomatica e lei decise di scappare. Arrivò a Matera, s’iscrisse al liceo artistico, e non molti anni dopo, quando il comune cominciò a dare le concessioni sugli antichi rioni (il Sasso Barisano e il Sasso Caveoso), comprò una ventina di grotte e una chiesa rupestre (a Matera ce ne sono più di 150, la più incredibile delle quali, la Cripta del Peccato Originale, è stata scoperta per caso dal sindaco: un pastore l’aveva ridotta a rifugio per le sue pecore, oggi è soprannominata la Sistina del patrimonio rupestre). “Alcune di quelle grotte io le disegnavo quando andavo a scuola: mai avrei creduto che sarebbero diventate il mio lavoro”, racconta al Foglio Berg, che da qualche anno ha venduto l’albergo allo svedese Daniele Kilghren, suo socio, e fatto un mucchio di altre cose, la designer e la docente di Luxury and Fashion alla Link Campus University di Roma sono tra le più recenti, ma non è mai tornata in Germania. Ora sta lavorando a un ciclo di conferenze, “Matera Economica”, in collaborazione con la Fondazione Eni Enrico Mattei che prenderà avvio il 4 marzo prossimo (ci saranno Carlo Cottarelli, Corrado Passera, Giulio Sapelli, Domenico De Masi, Domenico Fanizza del Fondo monetario internazionale) con un obiettivo chiaro: “Fare di Matera lo snodo vitale delle visioni più avanzate dell’arte, del pensiero, dell’economia”, perché “L’Europa deve saper spostare il suo baricentro più in basso, verso le sue origini”.

 

Investire sui grandi eventi ha senso purché siano appuntamenti che rendono la città un laboratorio di innovazione.

 

Passato il clamore di quest’anno, la città riuscirà a essere ancora attraente? “Per il turismo senza dubbio. Per i prossimi dieci anni, credo che l’interesse per la città rimarrà per lo più costante. Ormai è entrata nel circuito di tappe imprescindibili per chi visita l’Italia. Tuttavia, serve creare qualcosa che non solo trattenga le persone più a lungo, ma le faccia tornare con uno scopo preciso, come può essere partecipare a qualcosa di importante, decisivo”. Un festival? Ce ne sono tantissimi. “No, un forum. Un appuntamento annuale, nel quale si elaborino dati e prospettive per il futuro di tutto il mondo. Il mio sogno segreto è fare di Matera la città che ospita l’Anti Davos, ne ho parlato nei giorni scorsi con De Masi”. Impegnativo, ma dopotutto Berg è stata capace, quando Matera si credeva spacciata e lanciava rifiuti nel suo grembo, di intuire che in un posto abbandonato, scosceso, quasi inagibile, si poteva introdurre un’idea del tutto originale per la ricettività di lusso, che fosse esportabile anche altrove e che, soprattutto, costituisse un esempio per la città: costruire nuovi modelli per vecchie abitudini avrebbe rinnovato anche le abitudini. “I miei primi clienti erano dei russi ricchissimi. Quando arrivavano e trovavano le stanze con i pavimenti storti, senza televisori, senza frigobar, erano smarriti, quasi indispettiti. Poi hanno capito che quello che quel posto offriva era la sua irripetibilità e la sua purezza originaria”.

 

“Visitare questi quartieri, che tengono accesa la realtà originaria dei Sassi, è il modo per mantenere la città saldata alla sua identità”

Stefano Boeri: “Fondamentale per capire l’Italia: un lungo percorso di accettazione di condizioni di vita disperate e poi di grande riscatto”

A Matera la ferita dell’albergazione selvaggia è aperta, brucia. L’esempio di “Grotte della Civita” è rimasto unico. L’identità degli antichi rioni è stata annacquata. “Sentivo un’identità molto più potente quando sono arrivata, persino nell’abbandono”. Matera e tutta la Basilicata sono un esempio di come l’abbandono possa diventare una risorsa. Craco, un minuscolo paesino disabitato da decenni, a seguito di una frana, nelle mani di un sindaco strepitoso, Pino Lacicerchia, è diventato una meta turistica internazionale. E’ rimasto intatto e friabile. Si è avuto la forza di non rivestirlo, ripulirlo, farne hub, borghetto. E’ stato lasciato vuoto, drammatico, pericoloso. “Morirà nel vento”, dice Margareta Berg. Grottole, che sembrava destinato allo spopolamento (è uno dei cinque paesi del materano da cui si emigra di più), rivivrà grazie al progetto “Wonder Grottole”, elaborato da Casa Netural, un incubatore di start up materano, in collaborazione con la Triennale di Milano, e che prevede un recupero del patrimonio abitativo del centro storico del paese. WG si è aggiudicato 240 mila euro, stanziati dalla Fondazione Matera 2019 e, in tre mesi, ha raccolto 50 mila euro (15 mila dei quali versati da Airbnb) tramite crowdfunding.

 

Sono due esempi, piccoli, di come gli occhi del mondo su Matera abbiano irradiato energia in tutta la regione. E’ qualcosa di molto diverso dalla prosa miracolistica sulla “grande occasione di riscatto del Mezzogiorno”, che sul Mezzogiorno ascoltiamo, stancamente, da cinquant’anni. Si è irradiata fiducia in un’operosità che, in questa regione, non è mai mancata, ma di cui s’è spesso abusato, trasformandola in servitù.

 


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Briganti che vendichino questo abuso non ce ne sono più, tranne che in un film di Rocco Papaleo. Però c’è di meglio. Ci sono generazioni nuove che non hanno ereditato la vergogna della miseria, non avendone vissuto il dolore, né il trauma della mutazione antropologia, essendo cresciuti immersi nel liberalismo laico. Generazioni che concordano con Sgarbi, quando ricorda che Matera non è solo civiltà contadina, ma deve essere messa in grado di gemellarsi con Venezia, e costruire un asse nuovo per lo studio della storia dell’arte. Generazioni che non temono affatto che un treno, collegandole al mondo, le snaturi (tra le tante retoriche pseudo meridionaliste e decresciste servite alla città per farle ingoiare il boccone amaro dei collegamenti malandati, a lungo, c’è stata questa: godiamoci la vita lenta; se restiamo poco raggiungibili non verremo invasi).

  

Generazioni che conoscono la propria storia assai meglio di chi continua a ridurla a un piatto di peperoni cruschi e un verso di Scotellaro cantato in romanesco da Gigi Proietti.

  

Generazioni che hanno letto Leonardo Sinisgalli, che ha scritto: “Si scorre tutto il cielo, per trovare una stella”. Matera, fondale mediterraneo, scavatrice con la testa immersa nella roccia, a un certo punto s’è messa a guardare in su.

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