Un momento delle manifestazioni di Budapest (foto LaPresse)

L'Ungheria rabbiosa di Orbán che somiglia così tanto ad Anna Édes

Simonetta Sciandivasci

La ribellione della serva protagonista del romanzo omonimo di Dezsó Kosztolányi: la sua devozione verso il signore e la signora Vizy non sarà mai premiata con il salto di classe

Il cuore dolce della Mittleuropa è in tumulto. I cronisti stanno cercando di capire, in queste ore, in che modo e se la rabbia dei gilet gialli sia apparentata a quella degli ungheresi che per giorni e notti sono scesi in piazza contro la “legge degli schiavi” appena approvata dal governo di Victor Orbán, che consentirà ai datori di lavoro di richiedere ai propri dipendenti fino a 400 ore di straordinari e di ritardare il saldo dei loro stipendi anche di tre anni – praticamente una corvée contemporanea.

Questa Ungheria così intensamente rabbiosa e un po' spiazzante (il consenso per Orbán è sempre stato molto forte – La Stampa lo definisce addirittura plebiscitario) assomiglia ad Anna Édes, la protagonista del romanzo omonimo di Dezsó Kosztolányi, pubblicato nel 1926 e arrivato in Italia, per la prima volta in edizione integrale, il mese scorso, per Anfora Edizioni.

 

  

La trama. È l'estate del 1919, a Budapest, e la Repubblica Sovietica Ungherese guidata da Béla Kun e dai suoi 33 commissari del popolo è appena caduta. Sono spaventati e immobilizzati tutti: i borghesi, i proletari, i soldati e pure Kun, che infatti fugge a bordo di un aereo (guida lui, tanta è la fretta che ha di sparire). Il Trianon, l'accordo post bellico che nel 1920 mutila il paese di buona parte dei suoi territori, lasciandone dimezzata l'identità, è già nell'aria.

 

Anna ha vent'anni e viene assunta come domestica dal signore e dalla signora Vizy, su insistenza di lei, che come tutte le borghesi di Budapest è ossessionata dalle cameriere e al suo servizio vuole la migliore di tutta la città e ne prova e cambia a decine, finché non arriva Anna, la sua Anna, che si sveglia alle 4 del mattino e rassetta tutto ed è umile, onesta, rassegnata alla sua condizione, e da un certo in punto in poi anche devota. La signora Vizy la mette alla prova in ogni modo, prima la umilia e la strapazza, poi la tratta come una bomboniera, la fa sentire di casa, quasi di famiglia (un caro oggetto di famiglia), tanto che la ragazza comincia a vantarsi di avere i padroni migliori del mondo, gioisce quando le viene dato il permesso di toccare tutto quello che c'è in casa, chiama le cose “il nostro cavatappi, il nostro setaccio”, il nostro questo, il nostro quello. Non lo fa perché si convince di possedere realmente qualcosa, bensì perché smette di rifiutare quell'ambiente: l'essere umano s'adatta a tutto, anche a chinare il capo. Per sempre? 

 

Se per metà del libro Anna crede che non si abituerà mai a quella famiglia, poi finisce assorbita (s'illude), avviluppata dal tepore borghese, smette di sentirsi separata, dimentica la sua classe, quasi crede che la sua adozione sia avvenuta. La consapevolezza sua e dei suoi padroni è che lei sia solo una serva, pur sempre una serva, ma succede che, da un certo momento in poi, precisamente quando Anna smette d'opporsi e schifarsi e rigettare casa Vizy, detestando la sua propria condizione, quella consapevolezza smette di separare il servo dal padrone, instaura una finta vicinanza che assomiglia all'uguaglianza, ma è proprio lì che la vulnerabilità e la schiavitù di Anna sono più profonde, più assolute. Come nota Antonella Cilento nella postfazione al libro, Anna viene ingoiata perché quell'Ungheria “è un mondo dove, se si è appetitose, si viene mangiate, e tutti divorano tutti, nell'indifferenza prescritta dalla regola sociale”. Presto, come vogliono le trame classiche delle storie di cameriere, serve, sartine e istitutrici, Anna viene sedotta da un membro della famiglia, il nipote stronzo e scalcagnato dei Vizy, che la violenta. Tutto precipita e lei ammazza, con lo stesso coltello che aveva chiamato “il nostro coltello”, prima la signora Vizy e poi suo marito.

 

La sua è una rivolta improvvisa e non è solo una risposta allo stupro, ma – di più, molto di più – alla consapevolezza, altrettanto improvvisa, che la sua devozione non sarà mai premiata con l'uguaglianza: capisce che le verrà richiesta una sottomissione sempre più totale a qualunque cosa, che sarà sempre più in balìa dei padroni, che vorranno il suo lavoro, la sua competenza, il suo amore, il suo corpo, la sua arrendevolezza, la sua gratitudine per averle permesso di toccare l'argento di famiglia, bere il caffè tutte le mattine, sedersi sul divano, ridere con gli ospiti, come se lei valesse loro (uno vale uno?). In una delle conversazioni tra gli amici e i frequentatori di casa Vizy, sempre distaccati dalla storia, da quello che succede fuori, rintronati dai loro salotti ovattati e illusi che il loro status sia intoccabile, uno di loro dice a un certo punto: “La gente semplice, che occupa il gradino più basso della società, ragiona per estremi. Possiede molta più capacità di immaginazione di quanta potremmo attribuirne loro. Non s'accontenta di mezzi risultati. Vuole diventare padrona, ma completamente padrona. Oppure rimanere serva, ma completamente serva. O l'una o l'altra. Il resto è commedia”.

 

C'è anche questo, nell'assassinio che compie Anna: mi avete fatto annusare il potere, lo voglio tutto, è un mio diritto, non tornerò servetta, a costo d'ammazzarvi e non sarà mai completamente detto che sarò completamente vostra. Se il servo diventa padrone, nota ancora Cilento, è il più spietato dei padroni, un autentico tiranno: “Dunque, è inutile concedere alla cameriera di sedere a tavola con i padroni di casa, poiché ne verrebbe umiliata, ma bisogna dentro di sé vederla seduta a tavola tutti i giorni. Un mutamento interiore impossibile per i semplici e avari Vizy”. Orbán incarna quell'avarizia, ha tradito i semplici come i Vizy hanno tradito Anna. S'è illuso che conquistare i docili ungheresi (èdes significa dolce) significasse ottenere la loro disponibilità ad accettare tutto, anche una legge che li riduce a schiavi, una legge che divora il popolo. Ha tradito una promessa di identità nuova, finalmente compatta (Orbán ha incarnato quella promessa) in un paese che dal 1920 vaga e combatte per ricomporsi: è un errore che difficilmente può venire perdonato, persino da un popolo fedele di una fedeltà “plebiscitaria”.

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