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Homo ludens 4.0

David Allegranti

I videogiochi non mi hanno fatto male, anzi. La versione di Allegranti, replica divertita e documentata a Carlo Calenda che ha vietato il gaming ai propri figli (e trova al Foglio qualcuno d’accordo con lui)

Di solito per aprire il dibattito sui videogiochi che “fanno male” e relative paginate con doppia intervista o tripla intervista – lo psicologo, il sociologo, il filosofo, il padre di famiglia – si aspetta quantomeno la cronaca nera, chessò un tizio che si butta da un palazzo pensando di essere Ezio Auditore o un criminale che spara all’impazzata e che, guarda caso, è pure un giocatore di Call Of Duty (e puntualmente, dopo la strage dell’8 novembre in un bar di Los Angeles, è arrivato sul Corriere il commento di Massimo Gaggi dal titolo: “La cultura delle armi inizia dai videogames”).

 

“Considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere e sviluppare il ragionamento. In casa mia non entrano” (Calenda)

I rompicapo di Batman Arkham Knight, il rispetto certosino delle leggi della fisica, le storie complesse, il grande racconto corale western

Stavolta sono stati sufficienti un paio di tweet del pur ottimo Carlo Calenda contro il gaming: “Sarà forte ma io considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento. In casa mia non entrano”, ha detto l’ex ministro dello Sviluppo Economico, artefice – e qui sta il doppio paradosso – di Industria 4.0 e gran twittatore. “Il problema”, ha aggiunto Calenda, “è la passività rispetto alla lettura e al gioco. Reagisci non agisci. Inoltre abituano la mente a una velocità che rende ogni altra attività lenta e noiosa”. Ora, qui al Foglio io sono in minoranza, ma questo è un giornale liberale sicché posso anche scrivere un articolo di minoranza; infatti sia il direttore Claudio Cerasa sia il caporedattore Piero Vietti sono d’accordo con Calenda. Sarà che hanno entrambi figli e io ancora no, ma faccio fatica a capire l’assunto pedagogico-ortopedico secondo cui i videogiochi inducono alla passività e non ti fanno sviluppare il ragionamento e la capacità di lettura. Ho 34 anni, sono cresciuto giocando a Super Mario, Fifa (ora gioco a Pes), Age of Empires e poi ad Assassin’s Creed, Call of Duty e una marea di altri giochi che non da adesso ma da anni sono forme d’arte e di grande narrazione.

 

 

Ci sono videogiochi tratti da pietre miliari della letteratura fantasy, come quelli dedicati al Signore degli Anelli (l’ultimo, L’Ombra della Guerra, è magnifico) o da opere cinematografiche come Matrix. Questi videogiochi fanno parte del mio bagaglio culturale insieme a fumetti (Topolino, da bambino, è stata la mia prima enciclopedia), romanzi di David Foster Wallace e Bret Easton Ellis, libri di filosofia, saggi di politologia e di sociologia. Non cambierei nulla di queste “letture” che avvengono su molteplici media, né vorrei mai negare ai miei futuri figli – e qui sta il punto – le esperienze che io ho potuto vivere grazie alle tecnologie. Perché qui la questione da affrontare non è tanto o non solo il dibattito sui videogiochi – molto anni Ottanta come ha scritto Massimo Mantellini sul Post – ma l’esigenza ortopedico-normativa di vietarli o non farli entrare in casa. Ognuno è libero di crescere i propri figli come crede, ma chi ha una responsabilità politica, e Calenda ne ha parecchia visto che un giorno potrebbe pure guidare uno schieramento politico, potrebbe riflettere sull’impatto delle proprie esternazioni e valutare che in un clima di continua ricerca dei capri espiatori è un rischio offrire alla pubblica opinione i propri pregiudizi non documentati. Peraltro già l’organizzazione mondiale della sanità ci ha messo del suo inserendo il “gaming disorder” fra i “disease” nell’undicesima edizione della classificazione internazionale delle malattie (ICD-11). Eppure, “il gaming è una forma d’arte.

  

Significa esercitare la fantasia e l’ingegno, sfogare la rabbia repressa, stare in comunità con amici e sconosciuti, trovare riparo in mondi virtuali, e godere di una delle forme espressive più complesse mai create”, dice Fabio Chiusi, studioso di tecnologia e cybersecurity, tra pochi giorni in libreria con un libro su Black Mirror, “Io non sono qui. Visioni e inquietudini da un futuro presente” (De Agostini). Analoghi interrogativi su quanto male faccia la creazione X negli anni sono stati riservati a Internet, a Google, ai social network, al fatto che la costruzioni di mondi virtuali nei quali abitare con doppie o triple identità, e senza bisogno di finire nella Terra di Mezzo, sta costruendo bolle nelle quali il dialogo non esiste o assume forme unidirezionali. I videogiochi fanno male ai ragazzi? E Twitter allora non fa male ai politici (e quindi alla cittadinanza) che scambiano i follower per consenso politico o che alimentano – e questo non è il caso di Calenda, che mantiene sempre un tono garbato – odio sociale? Se il problema è la dipendenza, e in questo caso la dipendenza senza sostanza, allora si potrebbe rispondere che le potenziali addiction sono nascoste ovunque; nel cibo, in internet, nell’acquisto di oggetti o vestiti. Persino nella famiglia che pur di proteggere dal presunto assalto del mondo esterno sotto forma di videogiochi o fumetti impedisce ai suoi componenti più giovani di vivere un’esperienza videoludica nel timore che vengano corrotti.

  

I videogiochi non sono solo puro intrattenimento, sono anche storie. Solo che in quest’epoca di fact-checking estremo, pur di combattere l’analfabetismo funzionale e il populismo, c’è chi non è disponibile a pensare che le informazioni e l’arte possano essere fruite attraverso mezzi molteplici, come se tutta la vita potesse ridursi a libri, sport e lingue (tutte cose fondamentali ma non sufficienti). Prendiamo Monkey Island, un videogioco del 1990, in cui il giovane Guybrush Threepwood sogna di diventare un pirata, impresa tutt’altro che facile, e per farlo deve essere anzitutto abile nell’usare le parole come armi; la vittoria dei duelli, anche quelli con la spada, dipendono infatti dalla corretta selezione delle risposte argute da fornire all’avversario.

 

 

Oppure prendiamo Age of Empires, capolavoro di strategia, uscito per la prima volta nel 1997 e recentemente rielaborato, in cui il giocatore controlla una civiltà e deve farla progredire economicamente e militarmente partendo dall’età della pietra fino all’età del ferro. Imparare a scegliere i tempi d’attacco – che in politica e nella vita sono tutto – e le modalità di difesa possono essere preziose anche fuori dallo schermo oppure no? Forse sì. Forse insieme al Principe di Machiavelli, all’Arte della Guerra e ai libri di Joseph Nye sul “soft power” si può pensare di inserire anche qualche ora di AoE per capire come si costruisce una efficace strategia per battere i babilonesi o i felpastellati. “Il rischio più grande – mi dice Marcello Morgantini, ingegnere e dottorando alla Columbia University – è quello di fare del gaming un eccesso arrivando a confondere la realtà con il mondo virtuale, ma è ovvio che gli eccessi non sono mai salutari. Un bicchiere di vino al giorno fa bene, una bottiglia no”. Eppoi, aggiunge, ogni gioco ha qualcosa da offrire: “Alcuni giochi insegnano ‘problem solving’; altri stimolano capacità strategiche; altri ancora sono istruttivi (forniscono insegnamenti storici, matematici, eccetera); altri sono un’ottima valvola di sfogo”.

 

 

 

Fumetti, romanzi e videogiochi: non vorrei mai negare ai miei futuri figli le esperienze che io ho potuto vivere grazie alle tecnologie

L’ingegnere alla Columbia: “Ogni gioco ha qualcosa da offrire. Tutti richiedono una rapida coordinazione e riflessi pronti”

Il tratto comune, dice Morgantini, “è che tutti richiedono una rapida coordinazione e riflessi pronti. In più nel mio caso mi fa mantenere i rapporti con gli amici visto che siamo lontani ma giochiamo a Fifa online insieme, da New York a Lecce. Quindi se per molti i videogiochi creano alienazione per me è l’esatto opposto, sono la chiave per mantenere i rapporti”. Ci sono videogiochi pieni di rompicapo, come Batman Arkham Knight dedicato al principe di Gotham, o nei quali vengono rispettate le leggi della fisica, come l’ultimo Spiderman per Playstation 4, che piace molto agli ingegneri proprio perché vedono quanto è stato certosino il lavoro del team di sviluppo che ha lavorato all’ultimo Uomo Ragno. Ci sono storie complesse come The Last of Us, ambientato nel 2033 in uno scenario post-apocalittico, vent’anni dopo che un fungo Cordyceps ha iniziato a infettare gli esseri umani, trasformandoli in creature mostruose e sanguinarie fino alla morte. L’esercito ha provato ad arginare l’epidemia con la legge marziale o con l’istituzione di zone di quarantena, una decisione che non convince una parte della popolazione superstite, che ha dato vita a un gruppo dissidente, le Luci. Ma non è la catastrofe il centro del gioco, che serve più a dare un contesto ragionevole alla storia; sarebbe banale se fosse stato solo un gioco di zombie dai quali scappare. Protagonisti del gioco sono Joel, un padre che ha perso sua figlia, non uccisa dall’infezione ma da un soldato, e una ragazzina, Ellie, che è stata infettata dal parassita ma ciononostante non muta e non si trasforma in un mostro. Il rapporto che nascerà fra i due nel corso del viaggio attraverso l’America desolata è il cuore del racconto di The Last of Us. Per l’uomo, Ellie e le scelte che farà saranno destinate a dargli speranza e un motivo per andare avanti (ma non è detto che la storia sia a lieto fine; non la anticipo solo perché magari Calenda vorrà approfondire il rapporto fra padri e figli con questo “gioco elettronico”).

 

Insomma, come spiega su Agenda Digitale Marco Accordi Rickards, docente a Tor Vergata, “oggi il videogioco è molto più che un semplice gioco davanti a uno schermo, ma un’autentica opera interattiva, che fa uso di tutte le forme di linguaggio e comunicazione umane, fondendole insieme grazie al quid pluris dell’interattività, che coinvolge il fruitore nell’esperienza immaginata e realizzata dagli autori”. Questo significa che il “gioco elettronico”, come lo chiama Calenda, è uno strumento poliedrico. “A volte mette in scena un grande racconto corale western che omaggia Clint Eastwood e Sergio Leone (Red Dead Redemption 2, opera che per contenuti e forza narrativa ha da insegnare a parte del cinema e persino della letteratura), altre volte si ferma a narrare il vero racconto del dramma di una famiglia che perde il suo bambino, affetto da una grave forma di leucemia (That Dragon Cancer, che ha devoluto il suo incasso in beneficenza)”. Peraltro, a volerla buttare su una questione meramente economica e di mercato, Red Dead Redemption 2, appena uscito, ha fatto guadagnare 725 milioni di dollari nei primi tre giorni. Per trovare un altro esordio così nel mondo del cinema bisogna arrivare a “Avengers: Infinity War”, che nel suo primo fine settimana al cinema fece incassare 640 milioni di dollari.

  

Poi certo ci sono stati e tutt’ora esistono giochi violenti, utili solo come dice Chiusi a sfogare la rabbia. Mi viene in mente Grand Theft Auto, sul quale in epoche passate si esibivano lo psicologo, il sociologo, il filosofo, il padre di famiglia di cui sopra. Uno può legittimamente dire che passare ore a rubare auto e investire passanti possa diventare disturbante ed evitarli, ma solo perché a Watch Dogs – dove il protagonista è un hacker – si possono hackerare macchine, negozi, cellulari senza quello splatter gratuito che onestamente disturba anche me.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.