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Perché ci piace tanto l'uso politico dei bambini

Antonio Gurrado

Usare la voce dei minorenni è un espediente che rafforza la convinzione che un’idea sia tanto più vera quanto più ingenuamente viene espressa. L’ideale per un popolo che non vuole diventare adulto

I bambini sono apolitici soltanto finché ci conviene. Si può anzi azzardare l’ipotesi che gli unici bambini cui riconosciamo un’innocenza da preservare siano quelli altrui mentre i nostri – i nostri figli e, per estensione, quelli che esprimono idee affini a noi – in Italia sono visti come strumento ultimo di affermazione, arma retorica dall’effetto apocalittico.

 

Sul CorSera di oggi Antonio Polito si domanda chi salverà i bambini dalla furia della politica nostrana e cita i recenti casi: la bambina di dieci anni costretta a prendere la parola in una manifestazione contro il disegno di legge Pillon sui genitori separati; il bambino di nove anni del quale è stato reso pubblico il tema pro-Salvini; la nipote di Renzi la foto della quale è stata diffusa come reazione alle parole di Casalino sui bambini down; lo stesso discorso però può valere per innumerevoli altri casi, dal coretto infantile che augurava buon compleanno a Napolitano al dodicenne (undicenne?) antiberlusconiano che tenne un comizio al Palasharp, dai bambini fatti sfilare contro la Gelmini a quelli fatti sfilare per il Family Day.

 

Agli italiani piace sentire le proprie idee confermate pubblicamente da minorenni non solo perché in essi la politica può trovare un facile puntello, tramite la cosiddetta voce dell’innocenza: se lo dice anche un bambino, allora dev’essere proprio vero. Ma usare la voce dei bambini in politica è anche un espediente che, portando il pubblico a intenerirsi di fronte alle loro parole naif, rafforza la convinzione che un’idea sia tanto più vera quanto più ingenuamente viene espressa. È l’ideale, per un popolo che non vuole diventare adulto.

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