La morte della verità

Le falsità di Trump. I filosofi francesi degli anni 60 e 70. La cultura pop americana. Un delitto, una rete di indizi ma il colpevole non si trova. Gran libro (con un difetto) della ex critica letteraria del NYT

La verità è morta, ma l’assassino non è ancora stato trovato. Michiko Kakutani, che per 38 anni è stata l’ammirata e temuta critica letteraria del New York Times, ha provato a mettersi sulle sue tracce nella sua opera prima, intitolata appunto The Death of Truth: Notes on Falsehood in the Age of Trump. Si tratta di un libro breve e ricchissimo in cui questa figura quasi leggendaria documenta, appoggiandosi su un fenomenale apparato di letture, le circostanze del decesso, delinea le caratteristiche della scena, ripercorre la traiettoria che ha portato alla tragedia, analizza le concause, i fattori scatenanti, i catalizzatori, misura l’incidenza di certe condizioni socio-culturali che hanno traghettato il mondo contemporaneo nel mare burrascoso della post verità. Ma l’assassino ancora sfugge. C’è un indiziato enormemente ingombrante, s’intende. La cronologia delle menzogne di Donald Trump è ripercorsa qui con precisione implacabile. S’incontra il tycoon newyorchese che al telefono si spaccia per il suo stesso portavoce, il candidato che istruisce i collaboratori ad appellarsi a “fatti alternativi” quando i fatti senza aggettivi contraddicono le sue voglie, c’è la lista in continuo aggiornamento stilata dal New York Times, che ha messo in fila le oltre duemila bugie che Trump ha pronunciato da quando è alla Casa Bianca. Non solo. Kakutani parla della falsità trumpiana come stile di vita, come tecnica di manipolazione e gestione del consenso, scompone i fattori del continuo contraddirsi per individuarne le cause ultime e fa reagire tutto questo con le tendenze politiche, letterarie, culturali e tecnologiche che ci hanno portati fino a qui. Si incontrano lungo la via Aldous Huxley e Neil Postman, Jaron Lanier e Papa Francesco: ciascuno offre il suo prezioso contributo all’indagine. Ma alla fine dell’arguta trattazione l’assassino è ancora piede libero. Meglio ancora: si accumulano diverse certezze sul sicario, pochissime sul mandante. E viene il dubbio, una volta finito il libro, che si sia dedicata troppa energia alla caccia del primo e non abbastanza a quella del secondo. Chi ha dato l’ordine di uccidere la verità? Un’impresa del genere sembra decisamente fuori dalla portata di Trump.

   

La retorica contraddittoria ed emotiva di Trump come sottoprodotto nazional-populista e arciamericano della postmodernità

Una delle intuizioni su cui si fonda l’argomentazione di Kakutani è che la retorica contraddittoria ed emotiva di Trump sia un sottoprodotto nazional-populista e arciamericano della postmodernità e della teoria critica. Il processo di disgregazione delle “grandi narrazioni”, delle mondovisioni coerenti, dei principi che permettono di afferrare la realtà, il rifiuto dello scientismo e il sospetto verso il metodo scientifico tout court, lo screditamento del concetto stesso di autorità, della logica e l’aggressione al principio di non contraddizione hanno creato le condizioni perché un con man di New York potesse stregare con i suoi ingannevoli giochi di specchi l’elettorato americano. E ciò è stato possibile perché l’elettorato americano aveva a sua volta già interiorizzato la decostruzione, l’ipersoggettivismo, la critica verso ogni possibilità di conoscenza oggettiva della realtà. Kakutani, che nella carriera ha dedicato le sue pagine migliori a David Foster Wallace, attinge a piene mani dallo scrittore che con più chiarezza aveva presentito lo squadernarsi di questi inganni. “L’argomento postmodernista per cui tutte le verità sono parziali (e funzioni della prospettiva di ciascuno) ha portato all’argomento collegato per cui ci sono molti modi legittimi per comprendere e rappresentare un evento”, scrive la critica.

  

Foster Wallace aveva capito che il postmoderno non era una corrente di pensiero competitiva, ma era diventato il nostro stesso linguaggio

Il mondo irreale di Trump, un caleidoscopio che gira in continuazione davanti all’occhio imbambolato del pubblico, somiglia a quello dei critici francesi che hanno formato generazioni rivoluzionarie nelle università americane degli anni Sessanta e Settanta, e sembra quasi una bestemmia filosofica tracciare una linea che congiunge Trump e Foucault. Ma è soltanto “ironia”, un altro frutto acerbo della postmodernità: “E’ ancora più ironica l’appropriazione, da parte della destra populista, degli argomenti postmodernisti e del rifiuto filosofico dell’oggettività, scuole di pensiero affiliate per decenni alla sinistra e ai circoli accademici dell’élite che Trump e compagnia insultano. Perché dovremmo occuparci di queste arcane argomentazioni accademiche? Possiamo dire con certezza che Trump non ha mai compulsato i testi di Derrida, Baudrillard o Lyotard (sempre che ne abbia mai sentito parlare), e i postmodernisti non sono certo da incolpare per tutto il nichilismo che affiora da ogni parte. Ma alcune implicazioni semplificate del loro pensiero sono penetrate nella cultura popolare e sono state prese in ostaggio dai difensori del presidente, che intendono usare le argomentazioni relativiste per giustificare le sue bugie e dai conservatori che mettono in dubbio l’evoluzionismo, negano i cambiamenti climatici o promuovono fatti alternativi”. Trump è un rappresentante inconsapevole della scuola postmodernista, ma alcuni dei suoi sostenitori hanno talvolta esplicitato il legame fra la decostruzione in versione populista e quella che un tempo era stata messa al servizio della rivoluzione proletaria. L’indefesso propalatore di complotti Mike Cernovich – ricorda Kakutani – in un’intervista del 2016 ha detto: “Ho studiato le teorie postmoderne all’università. Se tutto è narrazione, allora abbiamo bisogno di alternative per dominare la narrazione. Non sembro uno che legge Lacan, vero?”. Scavando nell’universo dei sostenitori o dei “compagni di viaggio” di Trump si trova anche una schiera di personaggi che consapevolmente cerca di dimostrare che il metodo trumpiano non è che la decostruzione postmodernista portata alle sue estreme conseguenze. Figure come Jordan Peterson tendono in fondo a spiegare che il populismo trumpiano non è che la conseguenza del relativismo inculcato sistematicamente nelle università americane di sinistra per mezzo secolo.

  

Se tutte le verità sono parziali, si fa strada l’argomento per cui sono molti i modi legittimi per comprendere e rappresentare un evento

La madre di tutte le prove del Trump postmoderno è la vicenda di Paul de Man. Il pensatore belga fuggito dall’Europa in subbuglio era diventato un professore di Yale riverito ai limiti dell’idolatria da un folto gruppo di studenti, che lo consideravano una specie di incarnazione di ogni virtù e un baluardo della libertà contro le strutture oppressive. Nel tempo molti dettagli della sua vicenda personale hanno corroso la rappresentazione entusiasta dei suoi seguaci, ma la scoperta più scioccante è stata quella che durante la guerra De Man aveva scritto sotto pseudonimo centinaia di editoriali per il giornale filonazista Le Soir. In uno di questi sosteneva che “gli scrittori ebrei sono sempre stati di seconda fascia”, dunque “una soluzione per il problema ebraico che portasse alla creazione di una colonia di ebrei fuori dall’Europa non avrebbe, per la vita letteraria dell’occidente, conseguenze deprecabili”. Quando sono stati accertati i suoi trascorsi collaborazionisti, nel 1988, De Man era morto da quasi cinque anni, ma l’aspetto che più ha sconvolto l’accademia è stata la difesa dei suoi compagni di ventura. Derrida sosteneva che l’ambiguità del linguaggio usato negli articoli non permetteva di assegnare una responsabilità inequivocabile all’autore, mentre altri si sono precipitati a spiegare che, letti attraverso la lente dell’ironia postmoderna, quei testi significavano l’esatto contrario di ciò che appariva. Egli esponeva concetti antisemiti per rappresentare, con un paradossale gioco di contrasti, una profonda ammirazione per il popolo ebraico. Del resto, il linguaggio era stato separato radicalmente dal significato, la realtà era stata disciolta nell’interpretazione, tutto era stato decostruito e soggettivizzato, De Man stesso diceva ai suoi studenti che “le considerazioni sull’effettiva esistenza storica degli scrittori sono una perdita di tempo”.

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C’è anche una dimensione storico-critica di questo paradosso nella quale Kakutani non si addentra, ma che è implicata nel suo ragionamento. Gli esponenti delle teorie postmoderne sono per la maggior parte filosofi francesi che nell’accademia americana hanno trovato la loro santificazione. In Europa erano figure estreme, apocalittiche, lette e considerate dalla comunità intellettuale all’interno del perimetro filosofico nicciano a cui facevano riferimento; in America sono state sdoganate come portatrici di verità che potevano essere applicate all’intero ambito della conoscenza umana. Per usare una distinzione trumpiana: nel vecchio mondo, Foucault e compagni erano presi sul serio, ma non letteralmente; nel nuovo mondo vengono presi letteralmente, e anche sul serio. L’autrice rintraccia facilmente l’influenza che questi teorici hanno avuto sulla cultura popolare americana, da Thomas Pynchon a Frank Gehry passando per i fratelli Cohen e Tarantino, ma è l’incontro con le scienze umane che ha dato i risultati più inquietanti: “Quando le teorie postmoderne sono state applicate alle scienze sociali e alla storia una serie di implicazioni filosofiche, sia volontarie che involontarie si sono generate e hanno preso a rimbalzare ovunque nella nostra cultura”.

  

L’atteggiamento che distrugge la possibilità di una conoscenza vera e indubitabile della realtà, ridotta a mera rifrazione del soggetto, apre le porte allo schiacciante trionfo del “moi”, l’affermazione totale dell’io e delle sue voglie, una tentazione centripeta perfettamente distillata nella frase di Spike Jonze che compare in esergo a uno dei capitoli: “La nostra soggettività è così perfettamente nostra”. La riconversione dello sguardo contemporaneo verso il proprio io unico e incomparabile, indagabile soltanto dal soggetto stesso e peraltro senza strumenti affidabili, ché l’identità è sempre cangiante, liquida, è l’altra felice intuizione di Kakutani, che da critica letteraria documenta questo passaggio attraverso l’affermazione del genere memoir, il racconto autobiografico. In una realtà oscura e inconoscibile, lo scrittore non può che ripiegarsi su di sé, come ha notato Philip Roth nel 1961, quando, di fronte alla “realtà americana così confusa” parlava del “volontario ritiro dello scrittore di romanzi dai più grandi fenomeni sociali e politici della nostra epoca”, per rifugiarsi nello spazio sicuro del proprio ego irriproducibile.

 

Tutto questo soggettivismo antiscientifico ha certamente ha che fare con la cultura del narcisismo descritta da Cristopher Lasch e con la chiusura della mente americana di Allen Bloom, ma è anche legato alla nascita del femminismo, alle teorie sul multiculturalismo, al prospettivismo storico, al culto delle minoranze e della protezione dei soggetti fragili che sono state abbracciate e alimentate dai centri del pensiero liberal, gli stessi che oggi inorridiscono per le balle e le contraddizioni di Trump. Foster Wallace aveva afferrato con incredibile lucidità che il postmoderno non s’affacciava sulla storia come una corrente di pensiero competitiva, ma era diventato il nostro stesso linguaggio: “Il sarcasmo, il cinismo, il frenetico tedio, il sospetto per ogni autorità, il sospetto per tutte le costrizioni e le condotte e una terribile inclinazione verso la diagnosi ironica di tutte le cose spiacevoli, invece dell’ambizione non solo per la diagnosi ma per la redenzione. Dobbiamo capire che questa roba ha penetrato la nostra cultura. E’ diventato il nostro linguaggio”. Kakutani lo ha capito e lo svela al lettore, ma poi lascia il lavoro a metà.

  

Difficile e impopolare riconoscere che quello stesso milieu ha prodotto altre idee che invece sono celebrate come l’apice della civiltà

Il merito di The Death of Truth è collocare la morte della verità al di fuori del perimetro di Trump e del crasso populismo di questo momento incerto, suggerendo che le radici del fenomeno universalmente deprecato dai paladini della società aperta e del metodo scientifico sono più profonde. Ma l’autrice non s’arrischia a immergersi in tutta la profondità, non spinge la logica che abbozza fino alle sue conseguenze ultime. Gettare la morte della verità sulle spalle di un gruppo di intellettuali che di trumpiano avevano assai poco, rintracciare in quel clima culturale la nascita dell’antivaccinismo o della negazione dei cambiamenti climatici sono passi importanti, ma è più difficile e impopolare riconoscere che quello stesso milieu ha prodotto altre idee che invece sono universalmente celebrate come l’apice della civiltà. La teoria del gender è il prodotto quintessenziale della teoria critica che Kakutani severamente castiga, ma non si trova traccia di una critica della definizione della propria identità sessuale secondo criteri ipersoggettivi. Nella teoria del gender la scienza biologica non tocca palla, ma la critica si scopre paladina del pensiero scientifico a pagine alterne, tendenzialmente quando l’approccio positivista serve a smontare le già friabili tesi di Trump e dei suoi alleati. Non si trova traccia di una critica al multiculturalismo, dei presupposti soggettivi del femminismo, una messa in discussione dell’ideologia transgender o della cultura universitaria fondata su una concezione liquida, inafferrabile della realtà.

Quando lambisce questi argomenti scivolosi, Kakutani abbandona il rigore critico e si rifugia nella “roba che ha penetrato la nostra cultura”, l’acqua in cui nuotiamo di cui parlava l’amato Foster Wallace. Tracciare il legame fra questi fenomeni mainstream e il trumpismo significherebbe fare un ulteriore passo verso la scoperta dell’assassino della verità, ma ciò comporterebbe un rischio fatale: scoprire che il mandante assomiglia incredibilmente all’investigatore.