L'arte fuori dall'ombra
Il nuovo è stato la spina dorsale della modernità. Poi è venuto il postmoderno. E oggi, l’epoca in cui le opere non sanno come collocarsi nella storia. Unico paradigma per assegnare il valore, il prezzo
Venezia, luminosa fine aprile di sole e di vento. Scuola Grande della Misericordia, opera cinquecentesca di Jacopo Sansovino. Due vasti piani. Sotto, una gloriosa teoria di colonne corinzie binate sopra l’immenso salone tutto affreschi dalla Scuola di Paolo Veronese. Dentro – quel giorno – una grande voglia di fare il punto sull’ipotesi che davvero esista nell’aria un palpabile spirito di Innovazione guidata dalle idee. Di idee e innovazione si sente davvero parlare in una sorta di polifonica quanto eclettica esposizione senza soluzione di continuità, tra scienza e cinema, media e industria, politica e alta cucina, economia e giornalismo e molto altro.
L’arte tenta di ritagliarsi un ruolo, per allontanare da sé la sfocata figura di optional al socialee di orpello men che indispensabile
Si può decidere di vivere tutta l’impotente malinconia, o credere che comunque si possa ritrovare una nuova identità dell’arte
Naturalmente anche l’Arte pretende la sua voce. Come per sapere se idee e innovazione trovan spazio e vivono anche in ambito creativo.
Nel confronto serrato con le altre discipline in campo l’Arte e le sue pallide odierne indicazioni teoriche, le sue confuse forme espressive tentano con tutte le forze disponibili di ritagliarsi un ruolo provvisto di senso e di valore, non fosse altro che quello di allontanare da sé la sfocata figura di optional al sociale e di orpello men che indispensabile in cui – palesemente – oggi pare relegata quasi senza remissione. L’idea di tentare un po’ di luce fuori dall’ombra che la soverchia.
L’artista intanto schiavo di tiepide convinzioni, orfano di guide teoriche e di manifesti, perduto in ricerche spesso vaghe e di ricalco ha la necessità vitale di essere artefice del proprio destino, aver coscienza magari della necessità di un confronto col sociale e darsi ragione del proprio operato che non sia soltanto quello cinico e consueto della produzione di merci dal destino esclusivamente economico.
A consultare i dizionari s’apprende che ogni innovazione ha da fare con la novità, col mutamento, con la trasformazione, con la tensione costante verso lo svecchiamento, con il superamento e col progresso. E’ in sostanza il tema del nuovo come valore, quel tossico costante che ci costringerebbe all’innovazione permanente.
Il nuovo come valore è stato la spina dorsale della modernità, quella infinita tensione verso il futuro, verso i valori di un cambiamento della visione della storia. Profeta di questo verbo è stato Baudelaire che alla chiusa del Salon del 1845 proclamò l’avvento del nuovo dove Courbet e Manet, in questo senso, sarebbero i primi moderni, in quanto fondatori di una tradizione che impone a ogni generazione di contrapporsi a quelle precedenti esprimendo qualcosa di nuovo. L’uno con la ribellione alle imposizioni accademiche, nell’atto di presentare nel 1855 il suo Pavillon du Réalisme. L’altro destando scandalo con i suoi Dejeuner sur l’herbe e Olympia al Salon de Réfuseé del 1863 dove decisamente rompevano con le stereotipate rappresentazioni ufficiali.
“E se parlando di tradizione moderna non si offende la logica – osserva Antoine Compagnon – è perché in qualche modo se ne è usciti, come hanno fatto pensare tante profezie sulla fine della modernità”. A posteriori si potrebbe dire che la tradizione moderna abbia praticato la superstizione del nuovo.
Il concetto di modernità non si identifica con alcuna età storica, ma indica il contesto delle innovazioni che di volta in volta si manifestano, là dove il concetto di modernismo esprime l’atteggiamento di chi assume la modernità come valore in contrapposizione con i modelli del passato. Nella sua accezione storica si parla di età moderna riferita a un periodo che inizia con la fine del Medioevo e si protrarrebbe sino al 1789, inizio della Rivoluzione francese, anno dopo il quale avrebbe inizio l’età contemporanea. Si è soliti far durare la modernità – come civiltà almeno – sino agli inizi del Novecento, dopo di che pare iniziata una crisi senza ritorno che definisce problematicamente un’età contemporanea caratterizzata dal venir meno dei capisaldi della modernità.
Garden Beyond Spring Gate
Siamo già alla condizione postmoderna, quella descritta da Jean-François Lyotard in uno studio degli anni Settanta che ha avuto una grande diffusione internazionale. Egli – come è noto – identifica la postmodernità con la crisi delle grandi narrazioni e, in termini ancora più generali, la crisi delle grandi metanarrazioni.
La crisi apertasi nella seconda metà dell’Ottocento ha trovato in campo artistico prima una sua multiforme espressione attraverso le esperienze delle avanguardie storiche, poi dopo una fase di ricerca sperimentalistica a cavallo della Seconda guerra mondiale, una nuova espressione nell’ulteriore passaggio critico successivo in quella che si è comunemente definita età postmoderna. Postmoderno come anything goes, quello che per Clement Greenberg costituisce una sorta di abdicazione dell’arte alla sua purezza e autenticità.
Per Jean Baudrillard la citazione postmoderna è la forma patologica della fine dell’arte. Per Gianni Vattimo il postmoderno è qualcosa come rimettersi da una malattia e precisa che: “…non vuol dire che tutto vada bene ma più modestamente che non si può più rifiutare un’opera con la scusa che sarebbe superata o retrograda”.
Già nell’opera del 1977 The language of Post-Modern Architecture, vero manifesto del postmodernismo architettonico, Charles Jencks ha fornito un’interessante interpretazione del legame tra architettura post-modernista e generale tendenza alla dissoluzione delle strutture linguistiche, come segno di crisi di certezze oltre che dei ritmi convulsi della società contemporanea avanzata. La frammentarietà, la schizofrenia architettonica, lungi dall’apparire del tutto disancorata dal flusso della vita reale ne è per molti versi lo specchio. Addirittura ad essere coinvolta è la stessa identità del soggetto, a sua volta presa nel vortice della destrutturazione. Dice a questo proposito David Harvey: “Una sorta di schizofrenia come disturbo linguistico, una interruzione della catena significante si spezza, abbiamo schizofrenia sotto forma di un mucchio di significati distinti e non collegati”.
Un’epoca di opere d’arte come risultato di citazioni, di testi-immagini che si intersecano. Il postmodernismo si identifica allora pienamente col modo di essere e comunicare della società complessa, priva di centro.
Della babele postmodernistica Peter Bürger parla come di un indefinito rimando a livello di segni, senza che esista un principio dotato di valore esplicativo nei confronti dell’oggetto.
L’arte degli ultimi decenni ha navigato su mari infidi senza direzioni sicure e possibilità di verifica dei risultati acquisiti. Se il valore non ha nulla a che fare con il “nuovo”, l’Opera d’Arte non sa come collocarsi nella storia e offre letture occasionali e frammentarie. Un solo paradigma imperversa nell’assegnazione dei valori, quello che saldamente identifica il valore con il prezzo. Un ferreo – ma ormai già scricchiolante e arbitrario – modus operandi impugnato dal sistema dell’arte internazionale che elegge le reginette con poco credibili attribuzioni di valore applicando i più avanzati metodi del marketing.
Per tentare di approfondire in maniera diretta la selva in cui s’aggira l’artista – anima bella – varrà la pena sentire Mario Perniola e il suo L’arte espansa, dove come incipit dichiara “La bolla speculativa di quel mondo dell’arte iniziato alla fine degli anni Cinquanta del Novecento e caratterizzato dalla solennizzazione culturale delle Avanguardie storiche, il cui nume tutelare fu Marcel Duchamp, è finalmente scoppiata”.
Sono stati decenni di mode effimere spesso battezzate con poco credibili nomi provocatori che – più che altro – si sono preoccupate di palleggiarsi un potere paraculturale al fine di gestire il suo aspetto economico e di un qualche prestigio sia pur modesto.
Seguendo le indicazioni di Perniola le Opere d’Arte adesso valgono per il valore di marca e ovviamente gli artisti incarnano l’idea di un personaggio da passerella, una sorta di divo nelle mani di chi lo manovra con abilità per precipitarlo rovinosamente a servizio concluso. E’ potente il gioco esclusivo della comunicazione diffusa, internazionale, con casse di risonanza nei quartieri ombrosi della primarie Case d’Asta svizzere, americane o cinesi. E’ facilmente comprensibile che una simile organizzata struttura mercantile non necessiti più di dotti esegeti, studiosi, filosofi, al più possono far comodo come decoro spuntato quei soffietti spesso inutilmente leggibili che fungono da decorazione alle pagine di monumentali lussuosi patinati coffee table books.
Biennale di Venezia 2013. Secondo Perniola qui va in scena un evento straordinario e destabilizzante in grado di sovvertire – senza remissione – il concetto di quanto sino ad allora si era soliti considerare arte.
S’intende – e non può essere altrimenti – che la stessa figura dell’artista su quella base viene ridefinita e messa in discussione. Il tema della mostra è imperniato sul Palazzo enciclopedico di Marino Auriti, dilettante visionario che nel 1955 dopo anni di maniacale lavoro solitario depositava all’ufficio brevetti degli Stati Uniti l’elaborato modello di un gigantesco edificio che avrebbe occupato ben sedici isolati – idealmente a Washington – e che avrebbe dovuto contenere i simboli della conoscenza universale attraverso la storia dell’arte dell’umanità intera. Gioni ci ricorda, nell’autorevole prefazione del catalogo, come questa sia una mostra sulla conoscenza, quindi una mostra sulla impossibilità di sapere e sul fallimento di una conoscenza totale e – in fin dei conti – sulla malinconia.
Disincanto e rivoluzione copernicana tese a scardinare i falsi assoluti dell’Artworld, un disvelamento privo di riferimenti dove – come scrive Gioni: “… sfuma la distinzione tra artisti professionisti e dilettanti, tra Outsider e Insider”, poiché: “… bisogna riportare l’opera d’arte in prossimità di altre espressioni figurative”.
Infatti l’arte pensata come dominio di una interessata riserva o espressione di un fatto egoisticamente autonomo non soltanto si propone come fragile preda mercantile ma evidenzia anche la sua impotenza nel mettersi in relazione col mondo, con la vita reale, col sociale, con la pienezza espressiva svincolata dai dati – e tristi – obblighi imposti.
Courbet e Manet primi moderni, in quanto fondatori di una tradizione che impone a ogni generazione di contrapporsi a quelle precedenti
L’arte degli ultimi decenni ha navigato su mari infidi senza direzioni sicure e possibilità di verifica dei risultati acquisiti
La mostra di Gioni racconta di personaggi e oggetti totalmente eterogenei, arte di folli e psicopatici, autodidatti, ricercatori, sensitivi, veggenti, manufatti stravaganti, inventori di nuove religioni pseudo fotografi.
E’ il modo diretto e clamoroso di frantumare il diaframma già fragile che separava Insider Art – come arte professionale, celebrata e premiata dal mercato – da Outsider Art, opera di artisti spontanei, visionari, disturbati, eccentrici ed istituzionalizzati, in concorso con una vasta gamma di operatori di improbabili discipline. Benvenuti allora nei vasti e mai delimitati territori della Fringe Art dove, più o meno felicemente, s’abbraccia ciò che in arte era considerato legittimo con quanto – sino ad allora – non si era riconosciuto come tale.
Ci si muove cauti in un ambito culturale che Barthes avrebbe definito post-contemporaneo sapendo che si è davvero ben oltre i confini proposti dalla riconciliazione delle culture High and Low. Una fuga in avanti molto al di là delle strizzate d’occhio della cultura Pop col suo trionfo dell’esibizione della merce e il suggerimento implicito che l’arte potesse essere fatta da tutti. Se così allora, tutti artisti, padroni di territori dai confini dilatati sino al grado zero, molto molto vicino al nulla. Fringe Art come Babele che ci satura del malinconico sentimento della perdita dell’innocenza e ci precipita nel discutibile antro dell’antimodernità, non certo schiavi della self-deception moderna.
Cancellata l’idea del sublime, scomparsa la speranza di poter essere alternativi o sotterranei, ridicolizzato per sempre l’atteggiamento dell’artista sacerdote, intento ad officiare riti astrusi e vanamente incomprensibili, si può decidere di scegliere di vivere tutta l’impotente malinconia, quello sguardo from the distance sino al limite e la scomparsa oltre la linea d’orizzonte, oppure con non poco disincantato eroismo credere che comunque si possa ritrovare una nuova identità dell’arte, l’ansiosa ricerca di una sua vocazione originaria, momento umano dotato di specificità, di distinzione formale in grado di conferire all’atto artistico un nuovo statuto. Teoria, mestiere, socialità della presenza, vocazione didattica.
Più che mai vive ora l’alternativa sartriana dell’equivalenza delle possibilità. Decidere se conferire valore al condurre i popoli o ubriacarsi in solitudine.