Il diavolo è un editore, ma mette nel sacco solo gli aspiranti scrittori senza genio

Mariarosa Mancuso

L'apologo di Maurensig sulla vanagloriosa società letteraria

I libri non si leggono. Però si scrivono. Prima succedeva con la poesia, l’epidemia ha contagiato i romanzi. Tutti scrivevano (e scrivono) versi in proprio, nessuno leggeva (né legge) i versi degli altri. Se ogni aspirante poeta – oltre ad alimentare il fiorente mercato dell’editoria privata, anche su Amazon – mettesse a pizzo i soldini per comprare un libro l’anno la poesia sarebbe in cima alle classifiche. Se chi ha un romanzo nel cassetto ne comprasse uno altrui ogni tanto, le vendite dei libri farebbero un gran balzo. E magari qualcuno potrebbe rinunciare, constatando che ci si diverte di più a leggere i libri belli degli altri che a produrre il proprio libro bruttarello.

 

Per indurre in tentazione, il diavolo acchiappa le occasioni che trova. Nel paesello svizzero di Dichtersruhe (nome di fantasia, si intuisce, significa “il riposo del poeta”) travia le anime fingendosi editore. Di lì era passato Goethe scendendo verso l’Italia, tre locande si contendono l’onore di avere alloggiato il poeta, tutti gli abitanti a partire dal parroco scrivono e custodiscono almeno un manoscritto nel cassetto. Così inizia l’incubo raccontato da Paolo Maurensig in un libretto appena uscito da Mondadori con il titolo “Il diavolo nel cassetto”.

 

Il finto editore scatena odio e rivalità tra gli aspiranti scrittori, ha compito più facile di una volpe nel pollaio. Il gioco al massacro ricorda il romanzo di Stephen King “Cose preziose”: il maligno tiene bottega, ha la figurina del calciatore con autografo che rincorri fin dall’infanzia, in cambio chiede solo un piccolo favore che a te pare innocuo (di piccolo favore innocuo in piccolo favore innocuo, anche i più miti abitanti della cittadina puntano il fucile contro il vicino). L’altro grande modello è il racconto di Mark Twain intitolato “L’uomo che corruppe Hadleyburg”, tanto perfetto che i traduttori fanno a gara (in Italia, Eugenio Montale e Daniele Benati). Nella città più onesta degli Stati Uniti, e per questo odiatissima, arriva un forestiero deciso a vendicare un torto subìto. Arriva con un sacco di monete d’oro, quarantamila dollari del 1899, e una lettera che traccia l’identikit del destinatario. Nel giro di pochissimo diciannove integerrimi cittadini rivendicano il malloppo con trame e bugie, disposti a far fuori i rivali con ogni mezzo.

 

Ma perché proprio l’editoria e il mondo letterario? A parte qualche eccezione, i soldi che girano non sono tantissimi (e anche la gloria, a volte, si misura con il contagocce). Paolo Maurensig risponde per bocca di Padre Cornelius, che ha assistito ai tragici avvenimenti e li racconta nel manoscritto che stiamo leggendo. Spiega: i progressi della scienza e della tecnologia hanno tolto al diavolo il terreno sotto i piedi. Va a rifugiarsi dove c’è competizione: andrebbe bene anche la bocciofila, e si accontenta di seminar zizzania tra colleghi alla macchinetta del caffè.

 

Meglio va al diavolo se la competizione è pseudo-intellettuale. Ed è qui che Maurensig spinge il pedale: “La società letteraria è il luogo dove ogni vanagloria, alimentata dall’invidia, cresce a dismisura, dove anche il più banale dei pensieri – purché impresso a caratteri tipografici – viene accettato come verità assoluta”. Volendone sapere una più del diavolo: di chi avrà voluto vendicarsi Paolo Maurensig, che fu baciato dal successo nel 1993, quando Adelphi gli pubblicò la novella scacchistica “La variante di Lüneburg”? A furia di cattive compagnie, si finisce per sospettare di chiunque. Ma il ritrattino è perfetto, e ingloba i giovanotti che crescono a serie televisive. Poi quando vogliono esprimersi ambiscono al romanzo senza averli mai frequentati prima.

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