Jean-Baptiste Isabey, “Il Congresso di Vienna" (particolare)

Grida reazionarie

Giuseppe Marcenaro

Polemisti contro i Lumi, “atleti della religione”, autori di caustiche invettive. In un libro le voci perdute della Restaurazione in Italia

Con personaggi e “caratteri” del genere, primari e comprimari, mattatori dell’impossibile, il cartellone dell’impropria rappresentazione, sotto forma di libro, sarebbe piaciuto a Stendhal. Lo avrebbe coperto sicuramente di marginalia, commenti vergati negli spazi bianchi cadenzati sul carattere di quei tipi che affollando le pagine con le loro impuntature caratteriali conferiscono specificità al racconto di un’epoca. Uomini che con il loro modo di essere impressero fisionomia al tempo della soi-disant Restaurazione: la bella sequela di anni in cui un po’ di curiose intelligenze cercò di trovare il modo di ripristinare, recuperandola con escamotage diciamo letterari, l’aura di un’età, l’ancien régime, che sembrava essersi dissolta a causa degli eccessi di teste calde rivoluzionarie.

 

Amanti dell’ordine, pronti
a ogni passo alle ascesi che soltanto purissime fedi e inflessibili fedeltà all’ordine potevano consentire

In questo libro – La buona causa. Storia e voci della Reazione in Italia, a cura di Stefano Verdino, ed. Nino Aragno, 694 pp., 40 euro – monsieur Henri Beyle, pur in tempi storici diversi, ritroverebbe in ideale affinità di grovigli il serraglio degli umani comportamenti che già aveva sorpreso nelle carte conservate negli archivi del palazzo romano dei Caetani, in via delle Botteghe Oscure, ove nell’inverno del 1833 aveva rinvenuto una raccolta di manoscritti dei secoli XVI e XVII che, riscritti con creative invenzioni, sarebbero diventati Cronachette italiane. Ciò che interessava Stendhal non era la storia tout court ma il carattere e le curiose ostinazioni e vagolabilità dei personaggi.

E non gli fu difficile paragonare quel mondo cartaceo del passato all’epoca sua, e trovarvi analogie e impreviste originalità, facendogli constatare, ve ne fosse stato semmai bisogno, come in ogni contingenza storica, sia pur diversissima, gli esseri esplodono sempre in analoghi imprevedibili eccessi.

 

In una lettera a Sainte-Beuve, Beyle scrive: “Ho impiegato le mie economie per acquisire il diritto di fare delle copie di quei caratteri e di quei comportamenti. Tradurrò fedelmente questa roba, il cui merito, secondo me, risiede nei caratteri dei personaggi”. Agli occhi di Stendhal queste “cronache”, benché sovente siano prodotto di un nevrotico privato, sono in realtà un complemento della “grande” storia. E a completamento della grande storia dell’epoca sua gli sarebbero enormemente piaciute le “vite” che oggi formano La buona causa. Storie e voci della Reazione in Italia, “assemblate” con inimitabile acribia da Stefano Verdino, in un superbo volume, radiografia di un tempo, di personaggi e contingenze. Una summa in cui affiorano le impuntature e le isterie di una bella banda di tipi che l’uso comune, pesando gesta e comportamenti, cataloga come reazionari: insopportabilmente, a modo loro feroci, attraversati da individualissime isterie. Insomma individui che ce l’avevano con tutti, attraversati e nutriti da un continuo urto nervoso procurato loro da quei rompiscatole di caciarosi rivoluzionari che a ogni svolta storica volevano cambiare l’ordine delle cose. Mentre loro, esistenze reazionarie, dalle culture raffinate, costrette a condividere, secondo giudizio, con scalmanati, il medesimo tourbillon storico. Loro così amanti dell’ordine, pronti a ogni passo alle ascesi che soltanto purissime fedi e inflessibili fedeltà all’ordine potevano consentire. Definiti reazionari perché pronti a condannare quelle che per ineffabile giudizio erano le impure realtà dei tempi. Costretti a contingenze e a subire i disordini di giornate nelle quali la sorte li aveva condannati a vivere fra turpi insulti alle loro credute ineffabili e perfettamente cristalline condotte esistenziali.

 

Durò fino al 1870, quando a difesa della “fortezza papale” corsero fior
di reazionari, pronti a difendere
la causa con la spada e la penna

Reazionari. Il termine entrò nell’uso a partire dalla caduta di Napoleone per indicare quelle frange ultraconservatrici, dette appunto “culto della reazione”, che, nel clima della Restaurazione, avrebbero desiderato riportare l’Europa all’ancien régime, affiancati ai clericali, contrastando qualsiasi spinta al progresso, ogni balzo in avanti, soprattutto in ambito culturale e civile. I reazionari si autovocano, tal a un servizio divino, ad annullare le conseguenze indotte da movimenti, da frange sociali considerate perniciose, discese prevalentemente dalla Rivoluzione francese. Questi personaggi erano ben certi delle loro idee socio-politiche, che, secondo convinzioni, non potevano essere mutate a fini individuali. L’uomo non può cambiare a suo piacimento l’ordine delle cose: anche il sistema politico è determinato dalla storia (in quanto frutto dell’accumulazione di esperienze) e non può essere mutato. Il potere non è creazione umana ma divina. Il sovrano è il rappresentante di Dio in terra e dovrà rispondere esclusivamente a lui.

 

I reazionari insistono sull’antindividualismo, le strutture della comunità sono più importanti della singola persona: tali strutture sono configurate secondo un modello piramidale, non è vero che siamo tutti uguali ed è la natura stessa a determinarlo: è giusto che i più moralmente dotati stiano ai vertici della piramide. Il reazionario poggia le proprie convinzioni sulla religione coniugando le scelte in rapporto all’alleanza trono-altare, che si sostengono vicendevolmente per governare la cosa pubblica.

 

Ed eccola la bella genia di personaggi, alcuni paladini di pensiero reazionario come Joseph de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés, Luigi Taparelli d’Azeglio e Monaldo Leopardi, padre di Giacomo. Tutta gente dalla penna facile, capace di produrre pagine di disquisizioni sulle storture del mondo e sui benefici castighi necessariamente comminati da un Cielo furibondo a causa delle malefatte compiute da turpi tralignanti l’ordine divino.

 

Desideravano riportare l’Europa all’Ancien régime, contrastando
il progresso, soprattutto in ambito culturale e civile

Queste “menti illuminate” erano anche superbi grafomani. Producevano quantità di trattati. Una nuvola di pubblicazioni che facevano circolare. Le loro idee dovevano affermarsi. Da qui una produzione editoriale dilagante che è arrivata a noi con la sua specificità: una vera e propria categoria letteraria che si è portati a esplorare magari anche con interessata ironia, quando non con superbo sarcasmo. Si tratta di vere e proprie sezioni di biblioteche onuste di trattatelli e pamphlet “occasionali” contro l’un comportamento o l’altro fenomeno politico, etico, religioso. Siamo di fronte alla messe di opuscoli che dato il loro formato e la loro maneggiabilità, all’epoca della loro produzione risultavano facilmente veicolabili.

 

La vera e propria natura di queste “grida stampate” è spesso ignorata, anche perché, come si suol dire, sono produzioni letterarie concepite come delle vere e proprie eccentriche universalità. Al limite formale della sperimentazione letteraria, le opere di questi originali scriventi assomigliano a prove d’avanguardia, almeno nelle loro strutture linguistiche, e per gli argomenti che trattano, a grovigli fuori del tempo. Nella realtà sono assimilabili a pubblicazioni da collezionismo bibliofilo. In nessun caso rasentando la più celebrabile curiosità. Vivevano fuori del tempo al punto da rappresentare un movimento letterario di sublime inconscia avanguardia. Insomma “edizioncine” catalogabili nei marginalità delle biblioteche giacché il silenzio che oggi le avvolge somigliando al vuoto solenne echeggia lo strepito di “ summe teologiche” prodotte da tipi in foia di apparire per cambiare il mondo. Tipi che nell’aspetto immaginato richiamano a una superba rappresentazione simile a un trompe-l’oeil di volti molto ma molto affini a quelli dei santi e dei beati raffigurati con scarni lineamenti nella celestial gran rappresentazione dell’entierro di don Gonzalo Ruiz da Toledo conte di Orgaz, di El Grego.

 

I sommi reazionari dovevano immaginarsi di essere affini a quei beati che davan luogo a un inedito quadro di sostenitori della cosiddetta “buona causa” “nei più diversi registri dell’apologia: all’invettiva, dall’aulico, all’inimico e anche al triviale, secondo casi e argomento, con varie tipologie di scrittura: saggi, orazioni, lettere, dialoghi… Narrazioni, versi, libretti d’opera, articoli di giornale, ecc. Condizionali anche in forme dialettali: milanese, genovese, romanesco…

  

Monaldo Leopardi, il cardinale Lambruschini e altri: gesuiti, predicatori, controrivoluzionari. Tutta gente dalla penna facile

E conosciamoli un poco alcuni di questi autori che, riesumati e portati all’onor del mondo da Stefano Verdino non sono riusciti, salvo casi trattati in note a pie’ di pagina, a infilarsi in nessuna storia letteraria. Alfonso Muzzarelli, uno strenuo polemista contro i Lumi del suo tempo, travolto infine nel turbine napoleonico. Era un ferrarese di nobile famiglia vocato alla vita religiosa. Gesuita, avrebbe magari potuto sortire anche un poeta di qualche interesse: aveva esordito con rime agiografiche e spirituali di certa qualità se non avesse schivato i ranghi propriamente letterari per trasfigurarsi in un tosto polemista pubblicando in quattro volumi Il buon uso della lingua in materia di religione e una nuvola di opuscoli sulle “sacrileghe feste patriottiche” al tempo della Repubblica cisalpina. Un altro: Giovanni Marchetti, “instancabile atleta della religione” che dalle colonne del Giornale ecclesiastico vibra le sue invettive contro il montante giansenismo. Lorenzo Ignazio Thjulen, campione della controrivoluzione. Prospero Tonso, noto come predicatore, molto richiesto per i quaresimali in varie città e corti d’Italia, autore di La moderna democrazia smascherata, il testo suo più noto. Giuseppe Carpani, milanese, suddito fedelissimo degli Asburgo, a parte la sua vivace critica contro il “cruento baccanteggiare dell’anarchica rivoluzione”, è reso “celebre” dal fatto che il suo saggio musicale Le Haydine fu clamorosamente plagiato da Stendhal, che, accusato pubblicamente del misfatto, si difese dicendo che senza la sua copiatura, che lo aveva reso noto, Carpani non sarebbe stato nulla. Inoltre il cardinale Luigi Lambruschini, la cui visione del mondo si ancorava al più efferato dogmatismo in religione e all’assolutismo in politica. Autore di omelie e lettere pastorali di tono cupo e allarmato, è ben noto per la sua carriera ecclesiastica: ricoprì la carica di segretario di stato di Gregorio XVI, fu nunzio in Francia e riuscì a sfiorare il papato come “campione” dei porporati conservatori nel conclave che portò all’elezione di Pio IX. Lambruschini visse in una specie di stato d’assedio della chiesa: “Il liberalismo non parla che di carità e intanto getta gli uomini nella miseria e nell’infelicità”. Scrisse invettive letterarie che arrivarono a prendersela fin con Dante che “profana e stercora tutta la religione cristiana”. E se ne potrebbero ben censire altri campioni del genere: da Antonio Bresciani, Giovanni Bosco (santificato) a Giuseppe Gioachino Belli che visse tra le contraddizioni dei suoi versi irriverenti in romanesco e il bisogno d’ordine e di ossequio.

 

Ma quando si manifestò al mondo questa “scuola di pensiero” sfociata nella più assatanata grafomania? I primi segnali non potevano che intendersi in Francia, ovviamente subito dopo gli eccessi della grande Rivoluzione. D’altra parte, come noto, sia pur nel sublime gran casino una bella banda di antirivoluzionari andò formando un esercito di nostalgici dell’ancien régime. Brancate di personaggi che potremmo anche inventariare nel partito dei grafomani antirivoluzionari, sbocciati in quell’età solenne per contraddizioni e fantasie ammalate che fu l’età della restaurazione. Epoca che, perdurando decenni, andò affievolendosi al tempo del tramonto del potere temporale. Diciamo nel 1870, alla “presa di Roma” da parte dei bersaglieri. E bisogna pur ricordarlo che a difesa della “fortezza papale” erano corsi fior di “reazionari” in abiti da zuavo, gente al comando del generale Glanzer tra cui stavano nel mucchio di eroici papalini anche zelanti scriventi, pronti a difendere la causa con la spada e la penna come un tal Gaspare Invrea, in arte Remigio Zena.