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Nella giornata della memoria, pensare il dramma del male

Gabriele Palasciano

Ricordare ciò che è stata la Shoah è necessario, ma il “dovere di memoria” può avere dei pericolosi effetti perversi. Intervista alla filosofa Sophie Nordmann

Il regista tedesco Wim Wenders ha scritto: “I luoghi hanno memoria. Ricordano tutto. Il ricordo è inciso nella pietra. E’ più profondo delle acque più profonde. E’ come sabbia delle dune, che si sposta di continuo”. Da qualche anno, il 27 gennaio è consacrato in quasi tutta l’Europa alla Giornata della Memoria, in ricordo dello sterminio di circa sei milioni di ebrei da parte della follia distruttrice nazista. Tutto ciò richiama alla mente un insieme di immagini di persone, di circostanze e, soprattutto, di luoghi nei quali l’orrore si è manifestato. Ai campi di concentramento si aggiungono altri luoghi a forte valenza simbolica, nei quali l’ideologia nazista ha continuato ad esprimere la propria Weltanschauung politica, filosofica e culturale. E’ quanto ricorda il Memoriale della Shoah della Judenplatz di Vienna, realizzato da Rachel Witheread e inaugurato nel 2000. Esso rappresenta curiosamente una biblioteca i cui scaffali sono ricolmi di libri con il dorso rivolto verso l’interno, impedendo così la lettura dei vari titoli. Il simbolismo dei volumi inaccessibili alla lettura può essere compreso su due livelli: essi simboleggiano le vite innocenti che sono state sterminate, oppure testimoniano dell’ostilità dell’ideologia nazista verso un modo di intendere il sapere e la cultura, ovvero a servizio del vero e dell’umanità. E’ quanto ricorda la scultura bronzea del filosofo illuminista Gotthold Ephraïm Lessing collocata proprio dinanzi al Memoriale. L’originale, realizzato da Siegfried Charoux, venne distrutto nel 1939 dai sostenitori del nazionalsocialismo perché l’autore di Natan il Saggio rappresentava, secondo la loro percezione, una testimonianza resa alla tolleranza e al rispetto delle culture. I luoghi che conservano la memoria sono in un certo senso problematici, perché richiedono uno sforzo interpretativo, un’attività di pensiero che si confronta con le grandi domande dell’umanità. In questo caso, gli interrogativi ruotano attorno allo sterminio di donne e di uomini innocenti. Proprio pubblicando Difficile libertà nel 1963, il filosofo Emmanuel Lévinas riproponeva una serie di articoli frutto di una ventennale riflessione sul dramma e sui crimini razziali della Seconda guerra mondiale. Si trattava di un libro profondamente ebraico, filosoficamente e spiritualmente centrato sulla figura di Israele. Il popolo della promessa emerge lentamente dal fondo, assumendo coraggiosamente la responsabilità degli altri popoli del pianeta di fronte al male. Più che di un’elezione di prestigio e di un privilegio, si tratta di un’investitura in vista di una particolare missione spirituale per il bene dell’umanità. Una missione che implica ascolto, condivisione e ricerca dell’altro con tutte le sue sofferenze al fine di assumerle.

 

La Shoah non è un genocidio tra gli altri ma, come scriveva il filosofo Maurice Blanchot, è un evento assoluto della storia

Per Lévinas, si tratta della vocazione messianica del popolo ebraico: custodire e osservare tale missione, testimoniarla e trasmetterla agli altri popoli. Ma oltre che una riflessione sulla vocazione di Israele, la Shoah ha rappresentato una messa in discussione di categorie e ideali umani la cui acquisizione sembrava scontata. E’ quanto sostiene la filosofia ebrea Sophie Nordmann, giovane e brillante docente all’Ecole Pratique des Hautes Etudes (Ephe) di Parigi, specialista del pensiero ebraico moderno e contemporaneo. Studiosa del rinnovamento delle problematiche filosofiche fondamentali negli ambiti dell’etica e della filosofia politica, Nordmann ha all’attivo diverse pubblicazioni di cui non esiste ancora una traduzione italiana, come: Lévinas et la philosophie judéo-allemande (2017); Phénoménologie de la transcendance (2012); Philosophie et judaïsme. H. Cohen, F. Rosenzweig, E. Lévinas (2008); Du singulier à l’universel. Essai sur la philosophie religieuse de H. Cohen (2007). Nell’intervista, la filosofa offre delle preziose indicazioni per interpretare la memoria, la storia, la razionalità, l’uomo.

Cosa significa per lei, filosofa ebrea, la Shoah?

La Shoah è un evento unico nella storia dell’umanità. Per la prima volta si è cercato di distruggere una parte dell’umanità – gli ebrei –, di sradicarli dal pianeta, non a motivo di ciò che facevano o di ciò che pensavano, ma semplicemente per ciò che essi erano. In questo genocidio, alla sofferenza atroce si aggiunge una dimensione ontologica: i nazisti hanno richiamato gli ebrei – scrive Emmanuel Lévinas – all’“irremissibilità del loro essere ebrei”. In tale prospettiva, la Shoah non rappresenta un genocidio tra gli altri. Essa è un hapax nella storia dell’umanità, un evento senza precedenti. Come scrive il filosofo e scrittore Maurice Blanchot in La scrittura del disastro del 1990, l’olocausto è “evento assoluto della storia, storicamente datato, questa bruciatura che si è estesa a tutta la storia, dove il movimento del Senso si è rovinato”. E’ come una soluzione di continuità nella storia dell’umanità. Ciò pone la filosofia davanti alla vertigine, alla siderazione di un mondo dove tutto è da ripensare. Le categorie tradizionali, sulle quali la filosofia si è largamente costruita, sono così sconvolte dalla Shoah, e in particolare lo sono tutte le questioni legate all’umanità. Una tale constatazione è qualcosa di abissale. Numerosi filosofi, pensatori e scrittori contemporanei hanno scelto di non voltare le spalle all’abisso, ma di affrontarlo. Non vi è soltanto la filosofia, ma anche, soprattutto, la letteratura, poiché la sola filosofia è sprovvista dinanzi alla Shoah.

 

Un altro dilemma è capire i motivi per i quali la follia distruttrice si sia scagliata contro il popolo ebraico.

Sul piano più specifico della filosofia ebraica, ci si interroga con forza sul fatto che siano stati gli ebrei ad essere l’obiettivo, e ciò nello stesso momento in cui la loro integrazione nelle società europee era ben riuscita. Perché? Cosa ha di così particolare questo “essere ebreo” tanto da costituire l’oggetto di una tale furia sterminatrice? Questa domanda attraversa l’opera del filosofo Lévinas. Tutto ciò richiede ovviamente una riflessione filosofica sul posto degli ebrei nella modernità occidentale, una riflessione che condurranno, in alcuni contributi molto polemici, i filosofi Jean-François Lyotard in Heidegger e “gli ebrei” del 1990, e Jean-Claude Milner in Les penchants criminels de l’Europe démocratique del 2003.

 

La parola “memoria” è stata spesso abusata, strumentalizzata e svuotata di ogni profondità. Perché si dovrebbe diffidare seriamente dai suoi “cattivi usi”?

Occorre diffidarvi perché ci possono essere degli effetti perversi della memoria. La memoria si oppone all’oblio, ed è su questa opposizione che si fonda il cosiddetto “dovere di memoria”. Dovere verso le vittime che non sono più tra noi per testimoniare: una memoria rivolta, in un certo senso, verso il passato, per impedire che le vittime cadano in dimenticanza. Ad esempio, è questo il senso della lettura dei nomi durante le cerimonie commemorative della Shoah. Dovere verso coloro che hanno attraversato tali eventi tragici, che sono oggi tra noi come testimoni viventi: memoria rivolta verso il presente e il rispetto dei sopravvissuti. Dovere verso l’intera società, affinché non si ripetano mai più certi eventi, secondo la celebre formula che viene a volte attribuita a Winston Churchill, altre volte a Georges Santayana, “un popolo che dimentica il suo passato è condannato a riviverlo”: memoria rivolta verso l’avvenire con l’ingiunzione del “mai più tutto ciò!”.

 

Allora in cosa consiste il rischio?

Il dovere di memoria è contemporaneamente tutto ciò. Esso è molto importante. Ma ciò che abbiamo a volte più difficoltà a scorgere è che, nell’esercizio stesso della memoria, ci possano essere certi rischi. Soprattutto quello di una strumentalizzazione della memoria per dei fini politici, oppure quello di un uso illegittimo della memoria. Penso, ad esempio, alle ideologie che cercano di assimilare lo stato di Israele a un nuovo stato nazista. Ciò che si fa ancora più fatica a constatare, e che è pertanto essenziale, è che anche se esercitato con le migliori intenzioni, il dovere di memoria può avere dei pericolosi effetti perversi. La memoria è una forma di vigilanza. Ora, la preoccupazione della vigilanza può trasformarsi in cecità quando, obnubilata dal passato, dimentica il presente, per non vedere nel presente che una ripetizione del passato. A forza di ripetere che la storia può riprodursi continuamente, si finisce per non vedere altro che la riproduzione dell’identico, e per rendersi ciechi al presente nella sua specificità. La vigilanza si trasforma allora in cecità. Il filosofo Alain Finkielkraut ha riflettuto sulla questione in diversi saggi, soprattutto in La mémoire vaine del 1989, e ancora in Nel nome dell’altro. Riflessioni sull’antisemitismo che viene del 2003. Egli mette in guardia contro un certo modo di rivolgersi al passato che impedisce di cogliere la situazione presente nel suo carattere inedito. Essendo presi dalla nostra vigilanza affinché il passato non si riproduca, tendiamo troppo presto a incollare il passato sul presente. Secondo Finkielkraut, ciò impedisce di cogliere le forme attuali di antisemitismo, poiché si cerca di comprenderle incollando su di esse delle categorie del passato, quelle dell’antisemitismo degli anni Trenta. Una tale operazione ci acceca invece di illuminarci, ci impedisce di comprendere realmente il presente. Si deve essere consapevoli del paradosso di una preoccupazione per la vigilanza che può trasformarsi in cecità, se si desidera esercitare il dovere di memoria a ragion veduta.

Concentrarsi sull’importanza del dovere di memoria fa pensare che la sua percezione stia cambiando in questo frangente storico…

Ritengo che tali questioni siano molto più importanti perché viviamo un momento cruciale: i testimoni, i sopravvissuti, spariscono e sono sempre meno numerosi. Elie Wiesel ci ha lasciati. Recentemente Aharon Appelfeld è “entrato nel suo ultimo silenzio”, secondo la bella espressione della sua traduttrice Valérie Zenatti. Fortunatamente i loro libri restano. Ma stando così le cose, la memoria assume una nuova dimensione: non è più rimemorazione, ma commemorazione, riattualizzazione di un evento che non fa parte dei nostri propri ricordi, e di cui ci si deve pertanto ricordare. Attualmente siamo soli a dover assumere la memoria, abbandonati a noi stessi e alle nostre responsabilità, noi che non siamo i contemporanei della Shoah. Ciò rende l’ingiunzione del dovere di memoria, della memoria come dovere, ancora più forte, richiedendo inoltre la più grande precauzione. Perché è forse quella la parola chiave del dovere di memoria. Esso deve esercitarsi con precauzione, con prevenzione, con prudenza nel senso che Aristotele dava al termine greco phronesis. E a tal fine, la tradizione ebraica viene in nostro aiuto con la sua riflessione sulla trasmissione e sulla memoria – ciò che in ebraico è detto Zekher.

 

Infatti, quella ebraica è per eccellenza una tradizione della memoria, o ancora meglio del memoriale. Ricordare le azioni di Dio compiute in favore del suo popolo, Israele, nel corso della storia, significa riviverle, riattualizzarle.

La tradizione ebraica è una tradizione della memoria nella misura in cui la trasmissione di generazione in generazione suppone dei modi di riattualizzazione del passato nel presente. Per esempio, al momento della celebrazione della Pasqua ebraica, che commemora la fuga degli ebrei dall’Egitto, dove erano ridotti in schiavitù, sotto la guida di Mosè, ogni ebreo deve considerare che è lui ad aver abbandonato l’Egitto: “In ogni generazione, un uomo è tenuto a considerare sé stesso come colui che ha abbandonato la schiavitù dell’Egitto”, scrive Mosè Maimonide, una delle più eminenti figure della tradizione ebraica medievale.

 

Questo richiede una riflessione sui rapporti della memoria con la storia.

Esattamente. Noi moderni abbiamo l’abitudine di pensare la storia come una successione di eventi. Invece, nella tradizione ebraica, la storia è pensata come storia delle generazioni. Il termine ebraico che si traduce con “storia”, toldot, significa letteralmente “generazioni”. Ciò che raccontano i primi capitoli del libro della Genesi non è una successione di eventi, ma di nomi propri: racconti dei giorni di Adamo, di Noè, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Una storia pensata come catena di generazioni è anche una storia che deve confrontarsi senza sosta, ad ogni generazione, con l’abisso della morte. La memoria è giustamente ciò che permette di superare questo abisso. Su questo aspetto, rinvio alle riflessioni sviluppate dal filosofo Walter Benjamin sui rapporti tra storia e memoria, soprattutto nel suo Sul concetto di storia del 1940. Le riflessioni attuali sulla memoria non possono fare economia di tutto ciò. Prima abbiamo insistito sull’opposizione della memoria all’oblio, ma in questa prospettiva la memoria è anche ciò che si oppone alla storia, oppure essa se ne distingue. La storia è il passato come passato, la memoria è la riattualizzazione del passato nel presente. In tal senso, il dovere di memoria è anche un modo di rifiutare che simili eventi cadano nella storicità del puro passato, lottare contro la tendenza naturale del passato a diventare storia, anche se la memoria si nutre del lavoro degli storici.

 

Nel caso della Shoah, sembrerebbe che la memoria rappresenti la presa di coscienza di una grande e inescusabile assenza: l’assenza di Dio. Lei crede che un discorso su Dio abbia ancora senso “dopo Auschwitz”?

Quanto alla questione dell’assenza di Dio, la Shoah ha effettivamente dato vita a una riflessione teologica e a dei tentativi che sono alla frontiera tra filosofia e teologia. In modo particolare, penso al saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz, pubblicato nel 1984 dal filosofo Hans Jonas. Penso ancora al libro L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz del 1970 scritto da André Neher, una delle grandi figure dell’ebraismo francese del dopoguerra. Lei ha ragione nel sottolineare questa dimensione, più teologica che propriamente filosofica, ma che effettivamente è molto importante.

 

Come spiegare il fascino perverso che ha esercitato l’orrore supremo del genocidio? Proviene dall’irrazionale?

Sono del parere che non si possa affermare ciò. Infatti, esiste una razionalità nel nazismo. C’è una certa razionalità, prima, nell’ideologia nazista. C’è, dopo, una certa razionalità nella pianificazione estremamente organizzata della deportazione e dello sterminino. Non si è sotto il dominio irrazionale e disordinato delle pulsioni. E poi esiste una forma di razionalità nella quale è presente un progetto: vi è un puro scatenarsi della violenza, ma non si tratta solo di questo. Esiste anche un progetto di disumanizzazione della lingua, degli esseri, degli animi – per l’analisi di queste problematiche, penso ai lavori di Viktor Klemperer e all’opera di Primo Levi. E si tratta anche di un progetto politico. In tal senso, vi è proprio, come afferma Lévinas nel suo libro Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, pubblicato nel 1934, una “filosofia dell’hitlerismo”, della quale è essenziale rendersi conto. Che con il nazismo non si sia dinanzi all’irrazionale, ma al contrario alle prese con una certa forma di razionalità, è quanto di più inquietante e tragico per la condizione umana.

 

E’ la presa di coscienza che la razionalità possa degenerare in qualcosa di disumano…

In effetti, una certa razionalità può andare di pari passo con la peggiore barbarie. Tale è la grande lezione del XX secolo, di cui la Shoah segna il parossismo. È di questa rottura abissale che certi filosofi, come Theodor W. Adorno, cercano di prendere pienamente la misura. In francese, due aggettivi posso farsi derivare dal termine raison, ragione: rationnel, razionale – tutto ciò che riguarda la logica, il calcolo, la scienza, la razionalità teorica –, e raisonnable, ragionevole – ciò che attiene alla sfera dell’etica, della razionalità pratica. Mentre per i pensatori del XVIII e XIX secolo queste due forme di razionalità erano unite, il XX secolo, con la Shoah ma anche con le diverse forme di esperienze totalitarie e di sterminio di massa, ha radicalmente segnato la rottura, e anche la separazione tra le due forme. Tutto ciò obbliga a ripensare molto più in profondità la questione della razionalità umana. Dopo Auschwitz, non è più sufficiente dichiarare che la ragione è l’elemento che determina la nostra umanità. Questo perché la ragione, o almeno una certa forma di razionalità, può anche essere all’origine di una radicale inumanità.

 

Per il filosofo Adorno, Auschwitz rappresentava il “fallimento della cultura”, incapace di raggiungere gli uomini per trasformarli. La cultura umanista e razionalista occidentale, impregnata di filosofia dei Lumi, non ha saputo impedire la violenza e l’orrore della follia nazista. Ritiene che la ragione abbia realmente fallito?

Ciò che ha fallito è l’idea-guida dell’umanesimo illuminista. Questa idea fonda il postulato di un progresso dell’umanità nella storia: l’idea che la ragione è una, e che al progresso della ragione razionale si accompagna ipso facto un progresso della ragione ragionevole. Le tragedie del XX secolo mettono fine a una concezione della storia che si pensava, da due secoli, in termini di continuità e di progresso. I progressi delle scienze e i progressi dei costumi non procedono mano nella mano, armonicamente, come supponeva l’ottimismo dei Lumi. Ancora di più, la pura ragione scientifica e strumentale, il puro razionale nel senso di una ragione fredda e calcolante, è forse la forma più radicale di male. Circa questo aspetto sono di grande aiuto le riflessioni di Hannah Arendt sul totalitarismo e sulla banalità del male.

L’umanesimo è stato messo radicalmente in discussione quanto alla sua capacità di spiegare, di giustificare l’uomo e il reale.

Direi che tutto ciò non segna necessariamente il fallimento di ogni forma di umanesimo. Tuttavia, questo obbliga a ripensare l’umanesimo alla luce del divorzio tra il razionale e il ragionevole, e a mettere in questione l’umanesimo nella forma che gli hanno conferito i filosofi illuministi. E’ ciò che fa soprattutto Lévinas nel saggio intitolato Umanesimo dell’altro uomo del 1972. Di fronte all’umanesimo che parte dal soggetto, dal Je, dall’Io, egli cerca di comprendere ciò che potrebbe rappresentare un umanesimo che parte dalla considerazione dell’essere umano nella sua alterità. Che, nel pensiero di Lévinas, un tale umanesimo trovi nutrimento nelle fonti ebraiche è ciò che appare chiaramente quando si leggono le sue Quattro letture talmudiche del 1968. Del resto, si ritrovano degli echi in altri filosofi ebrei del XX secolo. Infatti, Hermann Cohen, Franz Rosenzweig e Martin Buber insistono con forza, ciascuno a suo modo, sulla dimensione dell’alterità che è il cuore dell’etica. Dinanzi alla concezione moderna dell’umanità concepita come comunità di simili, i filosofi insistono sull’alterità irriducibile dei membri dell’umanità. Nel paesaggio filosofico contemporaneo, questo “umanesimo dell’altro uomo”, o ancora questa “etica dell’alterità”, è particolarmente presente tra i filosofi ebrei.

 

Il libro del filosofo Buber L’io e il tu, espressione dell’importanza della dimensione dialogica, parte dal rapporto tra Dio e l’uomo per giungere alla certezza che quest’ultimo trova piena realizzazione nel rapporto col suo simile. Qual è stata l’influenza di Buber, in particolare per quanto riguarda la critica della modernità? Nella definizione di questo umanesimo, Buber fa leva esclusivamente sulla tradizione biblica?

Nel pensiero di Buber, la dimensione dialogica è effettivamente fondamentale ed è all’origine della sua critica radicale del mondo moderno. Secondo il filosofo, quello moderno è un mondo nel quale la relazione all’altro – vale a dire, per Buber, la Relazione vera di un “Io” e di un “Tu” – è scomparsa. E’ un mondo nel quale trionfa il “Questo”. Tutto è strumentalizzato. L’umanità finisce con l’adottare una concezione strumentale di sé. Per Buber, si tratta di un mondo da incubo. E’ uno dei temi principali del suo saggio filosofico maggiore, apparso nel 1923, che si intitola giustamente L’io e il tu. E’ nelle fonti ebraiche, in particolare nei profeti e nel movimento chassidico del XVIII e del XIX secolo, che egli trova il modello di ciò che chiama “l’Incontro”, quello di un “Io” di fronte a un “Tu”: “Tutti gli uomini ad un qualsiasi momento, conoscono l’Incontro, anche se l’esperienza è fugace. Ma esso è un segmento dell’umanità per la quale questa esperienza persiste nella durata, non soltanto nei momenti di grazia, ma in quelli del fallimento e finanche della catastrofe”.

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