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E' morto Appelfeld, lo scrittore che ha raccontato la Shoah

Mariarosa Mancuso

La sua storia è quella di un ragazzino solo al mondo che fece pace con il tedesco grazie a Kafka

Una fotografia ritrae Aharon Appelfeld bambino, in posa come si usava. Porta i calzoncini corti e la maglietta a righe, vicino a lui un cavallino di legno, in mano ha un frustino. Aveva sei anni, più o meno. Qualche anno dopo, il ragazzino di buona famiglia nato nel 1932 e cresciuto in Bucovina parlando tedesco si ritrovò solo al mondo. E non era un bel mondo: la madre fu uccisa dai nazisti, il padre e i nonni deportati con lui.

   

Riuscì a fuggire da un campo di sterminio in Transnistria, sopravvisse per un po’ da solo nella foresta, siccome nessun altro lo voleva il bambino biondo e con gli occhi azzurri fu adottato da una banda di criminali. “Fu la mia seconda scuola”, scrive in Storia di una vita. Sapeva abbastanza la loro lingua, imparò cose inadatte alla sua età – “mi avevano educato come un bambino tranquillo”, dice dei genitori – riuscì a nascondere le sue origini (e soprattutto la sua circoncisione).

  

Sbarcò in Palestina nel 1946, passando per l’Italia – lasciati i criminali, si era aggregato all’Armata Rossa come cuoco. Tre mesi trascorsi a Napoli furono la sua prima terra promessa. Appelfeld decise di scrivere in ebraico, che pure aveva imparato da adulto, mentre di giorno lavorava in un kibbutz (sempre da adulto cominciò a studiare la Torah): per raccontare lo sterminio degli ebrei d’Europa il tedesco era fuori discussione. Della nuova lingua gli piacevano la secchezza e la precisione, gli echi e le immagini bibliche.

   

Fece pace con la sua lingua materna leggendo Franz Kafka, negli anni 50. Lo racconta a Philip Roth, che nel 1988 andò a trovarlo in Israele e ne ricavò un’intervista uscita sul New York Times. Mr Roth non campava di giornalismo, per scomodarsi aveva un buon motivo: interrogare Appelfeld sull’eredità letteraria (a cominciare da Bruno Schulz), sulla vita in Israele, sui rapporti con il mondo di ieri e la diaspora (mossa degna di nota per uno che non ha mai voluto l’etichetta di scrittore ebreo-americano, ma solo americano).

   

Roth parla inglese, Appelfeld risponde in ebraico: “In Kafka ho ritrovato il tedesco dell’Impero asburgico, di Vienna, di Praga e di Czernowitz, il paese dove sono nato. Una lingua che gli ebrei hanno fortemente contribuito a creare. Ma ho trovato anche un’altra lingua, la lingua dell’assurdo. Io ero stato in un campo di concentramento ed ero sopravvissuto da solo nei boschi. Ma come faceva Kafka a conoscere tutti quei dettagli?”.

   

Sono i dettagli che ritroviamo nel primo e più famoso romanzo di Aharon Appelfeld, Badenheim 1939 (Guanda, come Storia di una vita). Dettagli da brivido: il lettore sa cosa sta per succedere, non lo immaginano invece i villeggianti arrivati nell’immaginaria cittadina austriaca a primavera. Per godersi l’aria buona, un festival artistico, pure le grazie di Sally e Gertie, due signorine “intente ad adescare, sì ma con eleganza” (solo il pasticciere nega loro le torte alla crema, anticipando l’americano che non volle decorare un dolce per due clienti gay).

   

Non immaginano cosa accadrà. Neppure colgono i segnali. Gli anziani già l’anno precedente avevano protestato per le melodie ebraiche nel programma musicale. Il Dipartimento sanitario identifica e registra gli ebrei, fa arrivare a Badenheim quantità di filo spinato e cemento. “Sarà per un grande avvenimento mondano” commentano i villeggianti bevendo cocktail. I beninformati fanno sapere che gli ebrei registrati saranno trasferiti in Polonia con il treno. Toccherà imparare il polacco, si preoccupa qualcuno che ha dimenticato la lingua degli antenati. I musicisti continuano a suonare, come l’orchestra a bordo del Titanic.

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