Nel 1969 uscì il romanzo “If Israel lost the war”, in cui Israele perde la guerra, viene diviso fra i paesi arabi e per gli ebrei inizia una nuova diaspora

Il settimo giorno

Giulio Meotti

Nel 1967 Israele vinse la guerra per restare sulla mappa. Ma se avesse perso? Un romanzo prova a immaginare che cosa sarebbe successo

Da cinquant’anni, gli arabi non cercano di fare altro. Cancellare le conseguenze della guerra dei Sei giorni. Da cinquant’anni, non si parla che di riportare Israele indietro nel tempo. A quello in cui, da una parte, aveva le armate nemiche, dall’altra il Mediterraneo. E bastava una improvvisa spallata per mandare in frantumi il piccolo stato rivierasco. La striscia di Gaza s’incuneava dentro il territorio di Israele, arrivava a una cinquantina di chilometri da Tel Aviv ed era gremita di forze armate egiziane; in Cisgiordania sostava l’ottima Legione Araba di re Hussein; dalle alture del Golan le divisioni siriane incombevano sulla Galilea. Israele aveva sempre il timore di essere addentato d’un tratto, all’improvviso.

 

L’Egitto, già alleato militare della Siria, strinse un patto militare d’emergenza con la Giordania, l’Iraq, l’Algeria, l’Arabia Saudita, il Sudan, la Tunisia, la Libia e il Marocco, i quali cominciarono a inviare contingenti militari per partecipare al combattimento imminente. Mentre truppe e blindati andavano ammassandosi su tutte le frontiere d’Israele, le trasmissioni radio e televisive da ogni capitale araba annunciavano giubilanti l’imminente guerra finale per lo sterminio d’Israele. “Distruggeremo Israele e i suoi abitanti”, proclamava l’allora capo dell’Olp Ahmed Shuqayri. E per i sopravvissuti, se ce ne saranno, “sono pronte le navi per deportarli”. L’Europa tradì. E di fronte alla scelta pro-araba dell'Eliseo di Charles de Gaulle, un uomo come Daniel Mayer non esitò a dichiarare: “Mi vergogno di essere francese”.

 

Haaretz pubblica la frase di Nasser ("Israele sarà distrutto") accanto a quella di Hitler ("l'ebraismo sarà distrutto")

Per Israele, l’attesa fu terribile. Aharon Appelfeld ricorda che tra gli israeliani sopravvissuti alla Shoah “di nuovo si parlava di deportazioni, di azioni punitive, di treni”, mentre la radio del Cairo trasmetteva inni, slogan e canzoni in cui si sognava il momento di gettare “gli ebrei in mare” e di “sgozzarli fino all’ultimo”. “Cosa stai aspettando?”, chiese Hanna Zemer, vicedirettore del quotidiano Davar, all’allora premier Levi Eskhol. Lui rispose in yiddish: “Blut vet sich giessen vie vasser”. Il sangue scorrerà come l’acqua. Il quotidiano Haaretz pubblicò la dichiarazione di Nasser, “se Israele vuole la guerra, allora Israele sarà distrutto”, accanto a quella di Hitler, “se gli ebrei trascinano il mondo in guerra, l’ebraismo sarà distrutto”. Si temeva il bombardamento a tappeto delle città israeliane, che un’intera generazione di soldati fosse spazzata via e una barezelletta sinistra e popolare diceva che un cartello era appeso all’aeroporto internazionale di Tel Aviv, esortando l’ultima persona a lasciare il paese a “spegnere gentilmente la luce”.

 

L’esercito israeliano, fatto di cittadini, dovette mobilitare tutte le riserve. La società israeliana era completamente bloccata e l’economia cominciava a incepparsi. Il capo di stato maggiore, Yitzhak Rabin, ebbe un crollo nervoso. Israele aveva implorato re Hussein di Giordania di tenersi fuori dal conflitto. Ma Hussein non poté resistere alla tentazione di prendervi parte. Vi prese parte, e perse.

 

Nel maggio di quell’anno, Israele si trovava in una posizione drammatica. Non era il paese che è oggi. Diciannove anni prima era sopravvissuto per miracolo alla guerra d’indipendenza. Cinque eserciti arabi lo avevano invaso nel tentativo di soffocare alla nascita lo stato ebraico.

 

Israele subiva attacchi terroristici su tre confini: al confine nord, i siriani bombardavano regolarmente le comunità ebraiche nella vallata sottostante; a sud e a est, terroristi dalla striscia di Gaza sotto controllo egiziano e dalla Cisgiordania sotto controllo giordano si infiltravano attraverso il confine effettuando attacchi contro civili che causarono la morte di più di 400 israeliani. Israele era largo solo 14 chilometri e un attacco della Giordania avrebbe potuto tagliare a metà il paese. Anche il suo approvvigionamento idrico era sotto minaccia. A partire dal 1964, i siriani avevano cercato di deviare le sorgenti della vitale fonte d’acqua d’Israele, il fiume Giordano.

 

Per il mondo arabo, i confini di Israele erano il punto in cui la guerra era stata sospesa e che doveva essere ripresa in qualunque momento. Per completare il lavoro.

 

Moshe Dayan viene fucilato, il paese spartito fra le nazioni arabe e nella battaglia di Gerusalemme muoiono 200 mila ebrei

Nasser aveva concentrato nel Sinai novecento carri armati, perfezionato il dispositivo di fortini, casematte, camminamenti. Arabi e israeliani sapevano che cosa dovevano affrontare. Invece, la sorpresa ci fu, e fu folgorante. Con l’impiego massiccio dell’aviazione, che aveva curato come la pupilla delle forze armate, Yitzhak Rabin annientò la potenza araba in meno di due ore. Dopo la chiusura dello stretto di Tiran alle navi israeliane, dopo una serie di incursioni da Siria e Giordania, alle 7 e dieci del 5 di giugno i primi aerei israeliani decollarono.

 

Volavano bassi, spesso a non più di quindici metri dal suolo, per evitare i radar. Alle 10 e trentacinque di quella mattina Motti Hod, comandante dell’aviazione, comunicava a Rabin: “L’aviazione egiziana ha cessato di esistere”. La Siria lanciò l’Operazione Rashid per il bombardamento del nord d’Israele: dodici dei suoi Mig colpirono i villaggi ebraici in Galilea, tra cui il kibbutz Degania, la casa del premier Eshkol. I caccia iracheni colpirono la valle di Jezreel, compreso il villaggio di Moshe Dayan, Nahalal. I Topolov, sempre dall’Iraq, attaccarono la città di Afula prima di essere abbattuti. Il fronte orientale di Israele prese fuoco, i danni materiali furono limitati, ma l’impatto psicologico fu grandissimo.

 

Le legioni arabe lanciarono seimila colpi di cannone sulla Gerusalemme ebraica, a partire dal Kibbutz Ramat Rachel e il Monte Scopus. Fu colpita la Knesset e la residenza del primo ministro. Oltre 900 edifici sarebbero stati danneggiati, tra i quali l’ospedale Hadassah a Ein Kerem, dove le famose vetrate di Marc Chagall andarono in frantumati. Anche il tetto della chiesa della Dormizione sul Monte Sion. Più di mille civili furono feriti, 150 seriamente, 20 di essi moriranno.

 

Davide contro Golia. Gerusalemme che si riunifica sotto il controllo israeliano, Gaza e i territori che finiscono sotto amministrazione israeliana, il Golan strappato alla Siria. E’ storia nota. Ci fu un tempo in cui la grande vittoria del 1967 fu un simbolo di orgoglio ebraico mentre oggi quell’evento è visto da molti con scetticismo, malumore perfino. Ma i critici dovrebbero anche ricordare che nel 1967 l’alternativa alla vittoria per Israele sarebbe stata la probabile realizzazione delle minacce di genocidio degli stati arabi, ripetute incessantemente dalle loro emittenti.

 

Se Israele avesse perso la Guerra dei sei giorni? Cosa sarebbe successo il settimo? Provò a immaginarlo, due anni dopo il conflitto, un romanzo straordinario e mai pubblicato in italiano. Lo scrissero Robert Littell, romanziere e padre dell’autore de “Le benevole”, e due reporter di guerra di Newsweek, Richard Chesnoff ed Edward Klein. Si intitola “If Israel Lost the War”. Se Israele avesse perso la guerra.

 

Il romanzo di Littell, Chesnoff e Klein nacque dalla domanda di Golda Meir: "E se l'Egitto ci avesse attaccato per primo?"

Il romanzo nasceva da una domanda: “E se gli egiziani avessero distrutto l’aviazione israeliana?”. Ai tre autori, Golda Meir aveva detto: “Immaginate se Nasser avesse colpito i nostri per primo. Cosa sarebbe successo?”. La vittoria dipese totalmente dalla buona riuscita di un attacco contro l’aviazione egiziana la mattina del 5 giugno. Fu una scommessa di proporzioni incredibili. Israele lanciò quasi tutti suoi 200 aerei in questa missione, esponendola totalmente alla contraerea e ai missili. Se fossero stati intercettati e distrutti, a Israele sarebbero rimasti dodici aerei per difendere il suo territorio – le sue città e i suoi abitanti – dai 900 aerei delle aviazioni arabe.

 

Il romanzo fu scritto nel 1969. Erano passati due anni dalla guerra, ma tra i vicini di Israele non si sentivano che parole di guerra e odio. Nasser affermava che gli israeliani dovevano restituire fino all’ultimo pollice del territorio conquistate durante la guerra. La Siria chiedeva semplicemente l’annieniamento dell’avamposto ebraico. A Bagdad, il governo organizzava feste popolari intorno agli impiccati ebrei con l’intesa che si trattava solo di un inizio per ben più vaste stragi. In Giordania, i Fedain diffondevano manifesti in cui si vedevano gli israeliani presi in trappola come sorci, aggrediti da ogni parte e resi folli dal fatto che non hanno dove scappare. 

 

Il romanzo si apre sull’immagine di una colonna di carri armati e camion dell’esercito israeliano in fumo, migliaia di soldati israeliani fatti prigionieri di guerra, massacri di massa dei civili. 300 di 385 aerei israeliani sono stati appena abbattuti. I palazzi di molte città israeliane sono già vuoti, e vuote sono le città, le macchine abbandonate lungo le vie come stormi di uccelli. Il governo israeliano evacua Gerusalemme, che capitola agli arabi dopo una battaglia strada per strada. 200 mila gli israeliani uccisi a difesa della loro capitale eterna. In diretta tv, il presidente americano Lyndon Johnson dichiara: “Gli Stati Uniti sono fieri di aver evitato che il conflitto si sia trasformato nella Terza guerra mondiale”. Esce un sondaggio: il 72 per cento degli americani esprime “simpatia” per Israele, ma “scarso impegno” a intervenire.

 

Gli Stati Uniti, che annaspavano nella guerra del Vietnam, non si schierano a difesa di Israele, come tutti i paesi occidentali, con la sola eccezioni dell’Olanda che invia alcuni aerei. Sirhan Sirhan non ha mai assassinato Robert Kennedy, ma decide di rientrare in Giordania per celebrare la distruzione dello stato ebraico. Kennedy invece sconfigge Richard Nixon.

 

Il libro nasce dallo scandalo del mancato aiuto internazionale a Israele e mostra il comportamento orribile degli eserciti invasori, lo stupro delle donne israeliane, i criminali di guerra nazisti chiamati a gestire la popolazione palestinese, che non ottiene alcuna indipendenza. Israele, sconfitto, viene smembrato e spartito fra Egitto, Giordania, Siria e Libano. Gli occupanti arabo-islamici emanano il decreto numero 1223: “Deportazione di tutti gli ebrei israeliani nati all’estero”. Il Congresso americano si fa carico di 17.500 immigrati da Israele. Masse di ebrei affollano l’aereoporto e i porti. Inizia una nuova diaspora.

 

Il libro si conclude con l’elicottero del dittatore egiziano Nasser che sorvola le rovine di Tel Aviv e Moshe Dayan che viene portato di fronte al plotone di esecuzione. Ma c’è anche una nota di speranza: Yigal Allon, che aveva diretto la milizia ebraica sotto il Mandato inglese, organizza già il primo incontro per lanciare la guerriglia clandestina sulle rive del lago di Galilea, finito sotto il dominio della Siria.

 

Uno scenario che sembrava più irrealistico quando uscì il romanzo, due anni dopo quel fatale conflitto, di quanto non lo sia oggi. Pochi mesi dopo la guerra del 1967, sul Los Angeles Times, un filosofo di nome Eric Hoffer scrisse: “Gli ebrei sono soli al mondo. Se Israele sopravvive, sarà solo per merito degli sforzi ebraici. Ho una premonizione che non mi lascia in pace; come va per Israele così andrà per tutti noi. Se Israele dovesse perire, l’olocausto sarà su tutti noi”.

 

L’ombra del settimo giorno continua a stagliarsi nel futuro di Israele. Basta pensare al film “2048” del regista Yaron Kaftori. Israele non esiste più. C’è un bibliotecario a Berlino che cura il memoriale della cultura sionista, c’è una ex israeliana che ha aperto un ristorante in Canada, c’è la profuga che si è fermata a Cipro per essere più vicina a Sion. Anche questo, come il romanzo “If Israel lost the war”, è costruito come un falso documentario.

 

Si scopre un video girato nel 2008 per le celebrazioni per il sessantesimo anniversario dalla nascita dello stato ebraico. Israeliani davanti al fumo del barbecue il giorno della festa dell’indipendenza, mentre rispondono alla domanda: come sarà il centesimo compleanno?

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.