Il filosofo e medievista Rémi Brague

L'ossessione dell'oblio. Intervista al filosofo Rémi Brague

Giulio Meotti

Il medievista, che ha ricevuto nel 2017 il premio Internazionale di cultura cattolica, analizza la situazione dell'Europa: “I monti e i fiumi non possono scomparire, la sua cultura sì. Siamo stati il centro della cristianità dall’Impero Romano. Ora siamo ammalati”

L’ossessione qui è di dimenticare”, ha detto lo scorso settembre al giornale La Croix il parroco di La Souterraine, un piccolo comune della Nuova Aquitania francese. Con quella frase, Padre Xavier Durand intendeva indicare il destino che in Francia sembra attendere il cristianesimo, simile a quello dei papiri egiziani del Terzo secolo, di cui Durand è un rinomato specialista. Rémi Brague è uno dei principali rappresentanti intellettuali di quella Francia che appare avviata all’oblio e all’irrilevanza.

 

A Monaco il grande teologo luterano e mio collega Wolfhart Pannenberg diceva: 'Nel 2017, non avremo nulla da celebrare'

Cattedra di Filosofia araba alla Sorbona, e un’altra di Storia delle religioni alla Ludwig-Maximilian- Universität di Monaco (dove ha occupato la cattedra di Romano Guardini), fra i massimi conoscitori viventi di Maimonide, autore di quella “Europe, la voie romaine” tradotto in quattordici lingue, Brague la settimana scorsa era a Bassano del Grappa a ritirare il prestigioso Premio internazionale di cultura cattolica, assegnato già ad Augusto Del Noce, Joseph Ratzinger, Giacomo Biffi, Eugenio Corti, Riccardo Muti, Angelo Scola, Camillo Ruini, Mary Ann Glendon e Carlo Caffarra.

 

Ovunque si guardi, dalla Francia alla Germania, il cristianesimo sembra minacciato da quella che è stata definita “auto secolarizzazione”. “E’ interessante osservare che l’Europa, che è stata dalla fine di entrambi gli imperi romani il centro della cristianità, ora è il continente ammalato”, spiega Rémi Brague al Foglio. “Il cristianesimo conosce una crescita in Cina, e anche, cosa molto sorprendente, nei paesi islamici, nonostante la persecuzione più o meno forte. Ma in Europa, va decrescendo. I sintomi sono noti, lei li ha citati. E’ interessante osservare che questa crisi fa parte di una crisi generale di tutta l’Europa, per non dire di tutto l’occidente. Allora è difficile sapere dovo sono le cause, e dove sono gli effetti. Per esempio, molte chiese in campagna – io penso particolarmente alla piccolissima città in cui nacque mio padre, vicino alla Borgogna, duecento chilometri da Parigi – le chiese sono spesso vuote, e il parroco deve dire messa in una dozzina di parrocchie. Ma anche le città perdono popolazione. Il cristianesimo in Francia, come in Italia, è nella sua maggioranza di confessione cattolica. In Germania, ci sono un po’ più di protestanti che di cattolici. L’anniversario della riforma luterana, da cui ci separano cinquecento anni, non è una auto-celebrazione. A Monaco di Baviera, dove ho avuto l’onore di insegnare dieci anni, circolava un detto del grande teologo luterano Wolfhart Pannenberg, che fu il mio collega all’università e che morì qualche anni fa: ‘Nel 2017, non avremo nulla da celebrare’. In Francia lo stato è impegnato in una lotta attiva contro la chiesa fin dalla Grande guerra. I media statali come la radio e la stampa sono tutti contro il cristianesimo. Rare volte si parla di cristianesimo senza un’ironia beffarda. I vescovi sono spesso paralizzati della paura. Quando non lisciano il pelo, la loro voce è spesso soffocata o non ritrasmessa dai media. Ma, nel solco delle dimostrazioni contro il cosiddetto ‘matrimonio gay’, nel 2013 è sorta una giovinezza cattolica molto impegnata e desiderosa di formazione intellettuale e di azione”.

 

Si prefigura una Europa post-biblica e post-classica. La cultura, come diceva Ernest Renan, è 'un plebiscito di ogni giorno'

Può esistere una Europa “post-cristiana” come lei l’ha definita in un recente saggio per First Things? “In questo saggio volevo caratterizzare ciò che l’Europa ha smesso di essere, o piuttosto quello che una certa autoproclamata élite vorrebbe smettesse d’essere. Per questo, ho voluto scegliere, dopo molti, l’aggettivo ‘post-cristiano’. Il cristianesimo europeo poggia sulla Bibbia, cioè su ambedue i Testamenti, dunque anche sulla ‘antica’ alleanza col popolo ebreo, e poggia anche sull’eredità greca e romana. Io preferirei parlare di una Europa post-biblica e post-classica, perché lo spettro culturale europeo contiene elementi che vengono da queste due sorgenti. Preferisco parlare di sorgenti piuttosto che di radici. Ambedue le espressioni sono metafore. Ma certe metafore valgono più di altre. L’immagine suggerita della parole ‘radici’ è vegetale, statica, passiva. L’albero ha le sue radici che non possono muoversi. Alla sorgente dobbiamo andare ad attingere l’acqua. E’ ben chiaro che, come realtà geografica, l’Europa non potrebbe scomparire. Ci saranno sempre monti e pianure, fiumi e coste. Ma la cultura europea potrebbe capovolgersi. Quello che definisce l’Europa nel significato etimologico sono i confini. Ma le frontiere d’Europa non sono fisiche, ma culturali. Senza la cultura, l’Europa non potrebbe distinguersi del resto del mondo. E la cultura dipende della gente che la impara, la produce, la trasmette alle generazioni più giovani. La cultura viene dalla decisione di ciascun momento. Si potrebbe dire della cultura quello che il filologo e storico francese Ernest Renan diceva della nazione in un discorso rimasto famoso: ‘E’ un plebiscito di ogni giorno’. Allora, la cultura europea dipende dal cristianesimo e dalla sua infrastruttura biblica, che ha ereditato dalla Bibbia. Un esempio fondamentale. Per noi, è evidente che ciascuno merita il rispetto. Non è cosi per un pensiero di impronta induista, per cui l’individuo è soltanto il risultato transitorio di una serie di incarnazioni. Non è cosi per una mentalità di impronta islamica, per cui solo un musulmano possiede il più alto livello di umanità”.

 

Quali sono le radici e le cause di quella che è stata definita la “decadenza” dell’Europa? “Di questa decadenza si parla già da molto tempo, forse dalla pubblicazione del libro di Oswald Spengler, ‘Il tramonto dell’Occidente’, dopo la Prima guerra mondiale. Per quanto riguarda le cause, è cosa molto difficile isolare cause che non sarebbero anche in qualche modo effetti, o sintomi della crisi. Penso alla perdita di fiducia in sé o alla visione meramente negativa della storia passata, che vede il passato dell’Europa come una lunga serie di atti criminosi. Vorrei parlare di una favola, come se fosse una favola di Esopo o del nostro La Fontaine. Il titolo è: ‘L’elefante e il topolino nella cristalleria’. Un elefante molto buono, un santo elefante e un topolino molto cattivo, un mascalzone di topo, entrano in una cristalleria. Chi fa i danni maggiori? E’ chiaro che è l’elefante, benché voglia fare soltanto il bene, mentre il topolino, che vorrebbe distruggere tutto, non può fare pressoché nulla. L’elefante fa danni che non vuole, perché è enorme e forte; il topolino fa pochi danni, nonostante la sua malvagità, perché è piccolo e debole. Allora l’elefante occidentale non era un santo, ma neppure il diavolo. E’ intervenuto oltremare e ha fatto danni semplicemente perché era potente”.

 

Veniamo alla questione islamica. La Francia, il suo paese, è il laboratorio privilegiato delle tensioni fra islam e cultura occidentale. “Nel passato la Francia ha svolto un ruolo molto ambiguo”, continua Brague parlando col Foglio. “E’ stata l’unico paese che ha scelto una alleanza con la Turchia degli Ottomani contro l’Impero di Carlo Quinto. Tutti i paesi d’Europa andarono a Lepanto nel 1571, tranne la Francia. Un secolo dopo, quando i turchi andarono ad assediare Vienna, i popoli di Austria e di Ungheria, con l’aiuto decisivo dei polacchi, hanno dovuto cavarsela senza i francesi. Questi tradimenti hanno lasciato tracce nella memoria collettiva dei popoli del centro d’Europa. E nei circoli diplomatici, questa traccia rimane. Sul futuro, purtroppo non sono veggente. Lo strumento di assimilazione e di integrazione degli stranieri era tradizionalmente la scuola che insegnava la lingua e anche la storia francese. Orbene, la scuola sta attraversando una crisi gravissima”.

 

Siamo immersi nel 'progetto moderno', il sogno di totale autonomia dell'umanità, che definisce e crea se stessa

Una grave colpa nella crisi che ha colpito la cultura occidentale sembra essere quella del postmodernismo, che ha avuto origine in Francia. “Non posso parlare di questo senza un certo sentimento di vergogna. Avrei preferito che gli intellettuali francesi esportassero beni culturali di un maggiore valore. Penso alla scuola storica francese. Il postmodernismo dice addio alla questione della verità. La razionalità si restringe al campo delle scienze ‘dure’. Anche qua non c’è bisogno di parlare di verità, basta dire che funziona. Tutto il ‘discorso’ tranne quello scientifico si interpreta sistematicamente come ideologia e strumento di dominazione”.

 

Cosa intende per “ritorno al Medioevo” come possibile strada di riscatto? “C’è da distinguere da un lato l’età moderna, gli ultimi cinque secoli, che ha prodotto un guazzabuglio di cose buone e cattive, come tutte i periodi della storia; dell’altro lato c’è quello che ho chiamato, riprendendo parecchi studiosi della storia delle idee, il ‘progetto moderno’. Consiste nel sogno di una totale autonomia dell’umanità, nel senso in cui questa potrebbe definire se stessa e creare se stessa, dimenticando il suo radicamento nella natura e la sua dipendenza dalla trascendenza divina, quello che ho chiamato metaforicamente ‘le àncore nel cielo’”.

 

Assistiamo a un tracollo demografico dalle dimensioni impressionanti. Uno storico francese, Pierre Chaunu, nel 1976 l’ha definita “la peste bianca”. E’ d’accordo? “Pierre Chaunu, scomparso qualche anno fa, era un grande storico della longue durée. Negli anni Sessanta tutti parlavano di una ‘esplosione di popolazione’, di un accrescimento esponenziale, del rischio di una incapacità di nutrire il pianeta, ecc. Adesso, più volentieri si parla di una ‘transizione demografica’, un fenomeno ben conosciuto: il regresso della mortalità infantile, dovuto ai progressi della medicina e dell’igiene, produce un incremento della natalità, e poi, dopo un certo periodo di attesa, un suo calo. Chaunu segnalava un pericolo inatteso, quello di un crollo demografico, soprattutto nei paesi sviluppati. Ma i media lo presero in giro, si burlarono di lui. Adesso, si capisce meglio la gravità del fatto. Eppure nessuno prende dei provvedimenti”.

 

Non so se è ancora possibile svegliare l'Europa da quella che Husserl nel 1935 definì il suo più grande pericolo: la stanchezza

Uno storico americano della Georgetown University, Joshua Mitchell, ha scritto che siamo entrati nell’èra della “grande stanchezza”. Potremo svegliarci? “Le sorgenti del discorso di Mitchell sono nel Rousseau del primo discorso, nel Tocqueville del capolavoro sulla democrazia e nella descrizione, per lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche, dell’‘ultimo uomo’. Rousseau sottolineava la fine delle virtù civiche, Tocqueville la fine dell’interesse per lo spazio pubblico e la politica, Nietzsche l’esaurimento del desiderio e l’accontentarsi dei piaceri volgari. Tutti questo fenomeni sono ben conosciuti. L’idea di una stanchezza dell’occidente è già espressa dal filosofo tedesco Husserl, prima della Seconda guerra mondiale, in una conferenza tenuta a Praga nel 1935 e pubblicata nel volume in cui si trova lo scritto sulla crisi delle scienze europee: ‘Il più grande pericolo per l’Europa è la stanchezza’ (Müdigkeit). Non so se è ancora possibile svegliare gli europei. Il ruolo dell’intellettuale è paragonabile a quello del profeta, che nell’Antico Testamento Ezechiele descrive tramite la metafora della sentinella. Suo dovere è dare l’allarme quando il nemico attacca la città. Se le persone lo sentono e fanno l’occorrente, bene. Ma se non lo sentono, se si tappano le orecchie e vanno a morire, non sarà colpevole la sentinella. Se il dovere della sentinella è gridare, quello dell’intellettuale è esprimersi nel modo più chiaro, ma non può essere sicuro che la gente lo senta. Per svegliarci, il prima passo è smettere di sognare. Il sogno è il custode del sonno”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.