foto di samchills via Flickr

Il giornalista neutrale non è un giornalista

Claudio Cerasa

Così un premio Pulitzer del New York Times smonta alla grande le fake tesi sul giornalismo obiettivo

Da qualche mese a questa parte, una buona fetta del mondo del giornalismo ha cominciato a occuparsi con grande intensità del tema delle fake news, creando una sorta di contrapposizione ideale tra ciò che si trova sulla rete e ciò che non si trova sulla rete e lasciando spesso intendere che la questione della post verità sia del tutto svincolata dalle piattaforme dei media tradizionali e sia legata esclusivamente alle notizie false veicolate dai famigerati cattivissimi social network.

 

Fino a oggi il dibattito sulle fake news ha seguito grosso modo questo spartito, ovverosia i giornali buoni che sfidano la rete cattiva, e non è mai entrato in modo dettagliato nel cuore di un altro problema, che non si può non affrontare per definire con chiarezza quali devono essere le giuste precauzioni che ogni giornalista dovrebbe adottare per combattere i professionisti della bufala.

 

La questione è semplice ed elementare e suona più o meno così: che cosa vuol dire oggi essere un giornalista obiettivo?

 

Il tema si trova al centro di un libro uscito due giorni fa negli Stati Uniti (“Just a Journalist”) firmato da una storica giornalista del New York Times (Linda Greenhouse) che dopo aver seguito per una vita da cronista la Corte suprema americana (1978-2008) e dopo aver dato un contributo alle pagine dei commenti dello stesso giornale ha scelto di gettare un importante sasso nello stagno del giornalismo attaccando uno dei grandi dogmi della stampa anglosassone (e non solo di essa): la necessità per un giornalista di essere obiettivo, neutrale.

 

Il dibattito innescato dal libro di Linda Greenhouse (premio Pulitzer nel 1998) è significativo perché arriva da una giornalista (di sinistra) che lavora da anni per un quotidiano che ha fatto del mito della neutralità un suo tratto distintivo (“Chi lavora per il Nyt – si legge a pagina 19 del codice etico del giornale – non deve far nulla che possa far sollevare domande circa la sua neutralità personale”) e perché arriva sotto forma di sfogo contro tutti quei colleghi ipocriti desiderosi di avallare una post verità di cui nessuno oggi ha il coraggio di parlare: il dovere di un giornalista di essere neutrale.

 

Linda Greenhouse – che nel libro ricorda con soddisfazione di aver espresso opinioni personali contro l’approccio di George W. Bush su Guantanamo mentre lavorava sulla Corte suprema e rivela di aver finanziato per molto tempo Planned Parenthood negli stessi anni in cui descriveva l’evoluzione legislativa del mondo pro choice americano – non dice solo che il giornalismo neutrale è una fesseria, perché ognuno di noi in fondo è come un fotografo che inquadra il mondo dalla sua personale prospettiva e non si può certo pensare di fare una foto oggettiva non viziata dal proprio punto di vista. Ma fa qualcosa di più: rivendica la necessità per un giornalista di esercitare il suo ruolo senza fingere di essere neutrale e afferma che un buon giornalista per essere credibile deve dire da che parte sta.

 

“Il mantra dell’obiettività – scrive Greenhouse – spesso inibisce i giornalisti a separare un fatto reale da una finzione e a svolgere fino in fondo il proprio dovere per aiutare i cittadini a essere davvero informati. Il contrario di obiettività non è faziosità, o non dovrebbe esserlo. Piuttosto è il giudizio, il duro lavoro di dividere le questioni false da quelle vere – e di eliminare o quanto meno segnalare quelle false”. La sintesi del ragionamento di Greenhouse ci porta a una conclusione sulla quale varrebbe la pena riflettere, non solo in America e non solo per chi lavora nei giornali: e se la stagione delle post verità fosse lì a dirci che il modo più efficace di combattere le fake news sia smetterla di far finta che il giornalista sia come una tabula rasa e senza pensiero? E se, in altre parole, l’unico modo per essere obiettivi fino in fondo fosse quello di spiegare ai propri lettori, o ai propri telespettatori, qual è la nostra inquadratura? Nell’epoca delle post verità, forse, l’unico modo per parlare senza farsi ridere dietro di fake news è quello di fare i conti con la più grande bufala della nostra epoca: la fake neutrality.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.