Foto di Moyan Brenn via Flickr

L'occidente pallido minacciato dalla "decostruzione della cultura"

Giulio Meotti

Secondo il grande storico Andrew Michta "la frattura collettiva dell’occidente”, ha indebolito la Nato, ha porto il fianco all’aggressività russa e all’islam radicale

Roma. I musulmani in Germania “devono accettare il nostro modo di vivere”, ha detto ieri il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble, solitamente restìo a intervenire su questioni simili. E se non amano la cultura europea si sono “sbagliati” a venire. “Ci sono luoghi migliori dell’Europa per vivere sotto la legge islamica”, ha detto Schäuble. Simile sul Figaro l’intervento di un grande scrittore algerino, Kamel Daoud: “I migranti non sono venuti a cercare asilo in Arabia Saudita, ma in Germania. E allora non vengano a creare nuovi Afghanistan”.

 

Perché si sentono così pochi messaggi simili dalla classe dirigente e intellettuale europea? Lo spiega in un saggio dal titolo “La decostruzione dell’occidente”, pubblicato da American Interest, il grande storico di Harvard Andrew Michta, preside del George Marshall European Center for Security Studies di Berlino, intellettuale europeista e atlantista. Secondo Michta, la “principale minaccia” all’occidente non viene dalla Russia, dalla Cina e nemmeno dai jihadisti, ma dalla “autoindotta decostruzione della cultura occidentale”. “Dire che il mondo sta diventando meno stabile e più pericoloso è dichiarare l’ovvio. Ma tra le cause di questo cambiamento sistemico c’è un motivo raramente evocato: la frattura collettiva dell’occidente”. Questa ha indebolito la Nato, ha porto il fianco all’aggressività russa e all’islam radicale. “Il problema dell’occidente oggi non è dovuto al declino economico di Stati Uniti o Unione europea, che rimangono le due economie più grandi del mondo, la cui ricchezza combinata alla tecnologia le rendono ineguagliabili”.

 

Il problema, dice Michta, è “la crescente incapacità dell’occidente di definire la ‘civiltà’. Al centro della disfunzione occidentale c’è la decostruzione della cultura e, con essa, il collante che per due secoli ha mantenuto Europa e Stati Uniti al centro del sistema internazionale”. Sfidato dal fascismo, dal nazismo e dal comunismo, l’occidente è emerso vittorioso “proprio perché, quando ha affrontato un pericolo esistenziale, pensava che valesse la pena combattere e se necessario morire per conservare la propria cultura”. Oggi questa convinzione è sotto attacco su più fronti. “A seguito di decenni di politica di decostruzione nell’accademia, nei media e nella cultura popolare, questa fede nell’unicità dell’occidente è diventata un’ombra pallida di ciò che era mezzo secolo fa”.

 

Michta parla di “svuotamento ideologico dell’occidente”, di cui è espressione la “politica multiculturale” causa della “crescente balcanizzazione” dell’Europa sull’immigrazione. “In nome del postmodernismo, l’assalto ideologico a questo fondamento del sistema internazionale occidentale è stato inesorabile”. Qui entra in gioco il jihad. “Non c’è da stupirsi se un’insurrezione radicale islamica è riuscita a compiere vaste incursioni contro l’occidente nel processo di rimodellamento delle nostre società”. Ma conclude Michta: “La più grande minaccia per la sicurezza e la sopravvivenza dell’occidente non deriva dall’esterno ma dall’interno”.

 

Siamo i nostri peggiori nemici. Il “crollo” culturale, la decostruzione, di cui parla Michta emerge dal ritratto dell’artista più blasonata degli Stati Uniti, Catherine Opie, che il New Yorker ha appena pubblicato sotto il titolo di “Sovversiva americana”: “Nella sua carriera, Opie ha fotografato le autostrade di Los Angeles, le famiglie lesbiche, i surfisti, le case di Beverly Hills, gli adolescenti che giocano a calcio, gli effetti personali di Elizabeth Taylor, gli amici, i centri commerciali e gli alberi”. Ma la sua fotografia più famosa è l’“Autoritratto”, esposto al Guggenheim: l’artista pallida in topless, un opulento drappo in oro sullo sfondo, i perni d’acciaio conficcati nelle braccia, il cappuccio da bondage che ne nasconde il volto e una parola incisa sul petto: “Pervertita”. Il postmoderno è diventato triste.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.