Dettaglio della copertina di "Nel guscio" (Einaudi) di Ian McEwan

Il piccolo Amleto di McEwan che ci racconta come si sta in pancia

Mariarosa Mancuso

"Nel guscio" (Einaudi), romanzo scanzonato e tragico da leggere

"Stavo meglio a testa in su”. In diretta dalla pancia della mamma il pupo non ancora nato commenta il nuovo accomodamento. Ha già le sue nostalgie: “era tanto bello far le capriole dentro il mio oceano privato”. Ma i mesi sono passati, le ginocchia premono contro il petto, qualcosa sta per succedere. Non bastasse la scomodità, mamma Trudy e un tale che scopriremo essere Claude, zio del nascituro, si danno parecchio da fare tra le lenzuola. Trambusti rapidi, ammette la creatura che cronometra l’esercizio: “oltre le porte del paradiso in tre minuti netti”. Nella sua posizione, comunque fastidiosi.

 

Ian McEwan si diverte, come mai gli era capitato (parliamo di letteratura, che è affar nostro, non della vita che rimane affar suo). Il romanzi della maturità erano seri, dai “Bambini nel tempo” a “Cani neri”, da “Solar” a “Sabato” passando per “Espiazione”. In gioventù – pubblicò i racconti di “Primo amore, ultimi riti” quando ancora non aveva trent’anni – era cupo e nerissimo, da qui il soprannome di “Ian Macabre”.

 

“Nel guscio” è il titolo dell’ultimo romanzo, come i precedenti esce da Einaudi. Un “Senti chi parla” scanzonato e tragico, raccontato da un insider che vanta una chiacchiera più brillante di molti adulti che conosciamo. Ha già scartato da un bel po’ “il dono della coscienza dal dorato involucro in cui era avvolta”. Conosce il mondo attraverso la radio e non perde una parola delle conversazioni attorno a lui.

 

Ian McEwan si diverte a giocare con i modelli letterari, a cominciare dal Tristram Sandy che con le sue digressioni e divagazioni fu un bestseller del Settecento inglese. Tristram assiste al proprio concepimento, andato storto per la domanda inopportuna della madre che aveva chiesto al marito: “Caro, ti sei ricordato di caricare la pendola?” (“sono nato da sperma vecchio” è invece il rimprovero che in “Le cento vite di Nemesio" di Marco Rossari viene rivolto a un genitore che per tutto il Novecento si era trovato dove le cose succedono). La pista dei nomi – Claude e Trudy come Gertrude – conduce all’”Amleto” di Shakespeare. Anche per il nascituro si porrà il dilemma: “essere o non essere?”. Il veleno non viene versato nell’orecchio ma sciolto in un beverone salutistico. Il bambino ancora non è nato, ma già si è accorto della fede che riponiamo in certi intrugli.

 

Circondati come siamo da comportamenti infantili e da inviti a riscoprire e a celebrare il bambino dentro noi (sì, quello che abbiamo cercato di ridurre al silenzio nel tentativo di diventare adulti) è bello far conoscenza con una creatura intelligente, spiritosa, dotata di buon senso. Capace di rintuzzare il pessimismo imperante constatando che non siamo mai stati meglio di così – si parla di mondo, non del giardino di casa – e celebrando miracoli quotidiani come l’elettricità o l’anestesia dal dentista. Qui Ian McEwan mette in bocca all’innocente, che poi tanto innocente non sembra, i ragionamenti che uno scrittore pubblicato dal Guardian farebbe meglio a tenere per sé.

 

Un padre esiste, si chiama John, con la sua casa editrice pubblica libri di versi – poesie sulle civette, per esempio – che non venderanno una copia. Trudy lo ha lasciato per rotolarsi nel letto con lo zio immobiliarista. Un piano viene escogitato per far fuori l’incomodo consorte – non è spoiler, è la trama di “Amleto”. Il nascituro si trova proiettato in una storia, dando addio alla tranquillità che stava diventando noia. Ian McEwan si diverte, e il lettore ancor di più, quando un personaggio butta lì la frase “questi migranti… un bel problema”. Viene risucchiato da una strepitosa pagina di sciocchezze alla Bouvard e Pécuchet.

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