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Retorico e attivista: ecco il prof ideale secondo il ministero dell'Istruzione

Antonio Gurrado

Megalomanie didattiche nell’“Italian Teacher Prize”

Tremilatrecento insegnanti italiani sono convinti di essere, ciascuno, il migliore della nazione: hanno pertanto inviato al ministero dell’Istruzione un’autocandidatura per venire insigniti dell’Italian Teacher Prize, prestigioso riconoscimento istituito quest’anno. Grazie al sistema delle nomination, che generosamente consente di candidare anche qualcun altro, si è potuto integrare il novero dei megalomani giungendo a circa diecimila candidature complessive, da cui sono stati alfine scremati i dieci docenti che concorreranno ai cinquantamila euro in palio.

 

Fra loro ci sono profili indubbiamente interessanti, da chi insegna in una scuola ospedaliera o in quella carceraria fino all’ammirevole, eroico professore cieco che un quarto di secolo fa aveva vinto il concorso preparandolo su libri registrati su audiocassette. Non sono queste eccezioni tuttavia a dare la cifra dell’ideale di scuola che il ministero ha in mente, come emerge con chiarezza dalla vastissima selezione. Il profilo ideale del miglior insegnante italiano risulta un ircocervo composto di impegno sociale, retorica, eccentricità e burocrazia.

 

C’è l’ex deputato ambientalista che sin da piccolo ha nutrito passione per la geografia e ha partecipato a convegni su sviluppo sostenibile, aree protette, rifiuti e musica popolare. Ci sono la prof di matematica che utilizza il teatro per recuperare gli alunni insufficienti e lo scienziato che insegna aggrappandosi a dignità e sorriso. Né manca quello “noto per le sue stranezze, eclettico e creativo”, che suona, fa sport e vince concorsi di fotografia, pubblicando dodici libri nei ritagli di tempo, oltre a “inventarsi attore, poliglotta, cieco, sordo, per costringere i suoi studenti ad aiutarlo”: questo novello Leonardo “ha realizzato sperimentazioni di insegnamento della matematica mediante l’uso del corpo”.

 

Vi sembra fumoso? Leggete allora l’autoritratto di colei che “fa parte del team dell’innovazione e promuove percorsi di formazione soprattutto sugli strumenti della condivisione della didattica”. Chissà cosa vuol dire. Se poi un insegnante mediocre volesse trarre ispirazione da quest’eletta cerchia per capire come riuscire a coinvolgere i propri alunni, fra le peculiarità del metodo dei finalisti troverebbe i soliti percorsi interdisciplinari, i soliti modelli didattici funzionali all’alternanza scuola/lavoro, e lo studio come molla di riscatto sociale, e le competenze di cittadinanza, il vedere orizzonti nuovi, il far innamorare della materia, il lavoro in team, l’educazione alla legalità, il rispetto per le regole e per la diversità, i rapporti con il territorio nel 2000 nonché la “capacità di inferire relazioni” sulle “problematiche del mondo contemporaneo” – che lascia sospettare trattarsi di un premio non per insegnanti ma per appuntati dei carabinieri. “Il rapporto con gli studenti e con i colleghi mi ha permesso di crescere, di conoscermi di spendermi interamente”, scrive un candidato e, a proposito di spesa, viene da chiedersi cosa faranno del cospicuo premio in denaro assegnato da una giuria “composta di personalità di spicco provenienti da mondi rappresentativi della società italiana” (Cristiana Capotondi, ad esempio).

 

Niente. Uno vuole organizzare corsi di formazione per colleghi, uno comprare strumenti di monitoraggio ambientale per diventare punto di riferimento della comunità locale, o costruire banchi che siano anche postazioni sportive per alunni con difficoltà di concentrazione, o più modestamente comprare una stampante 3D. Nessuno terrà i soldi per sé poiché, per quanto coincida con circa due anni di stipendio, il premio per il miglior insegnante d’Italia andrà alla sua scuola e non a lui. Se però da bando ministeriale l’Italian Teacher Prize “intende celebrare gli insegnanti italiani sensibilizzando l’intera comunità sul fondamentale ruolo che essi svolgono all’interno della nostra società”, forse si trasmette il messaggio sbagliato lasciando intuire che l’insegnamento non sia un lavoro ma beneficenza.

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