foto di Vinoth Chandar via Flickr

Dietro al dibattito sulle bufale online c'è la domanda su cos'è la verità

Giovanni Maddalena

Anche i sostenitori del fact checking hanno qualche debolezza

Gli italiani facciano più sacrifici e smettano di lamentarsi” è la frase attribuita al neo premier Gentiloni dalla falsa notizia più condivisa in rete qualche giorno fa. Un amico giornalista mi racconta di aver cercato di smentirla almeno sul suo account Facebook ma di essere stato investito dal suo interlocutore da un “dimostramelo!” e poi, di fronte alle prove, da un ancor più significativo “beh, se non l’ha detto, certamente lo pensa”. L’episodio è significativo per capire uno dei fenomeni della comunicazione attuale. Perché aumentano le fake news, quelle che una volta venivano più prosaicamente definite bufale? Come mai ci sentiamo così a disagio nel contrastarle e gli sforzi sono così vani? Perché alle volte anche scaltriti giornali ci cascano?

  

 

La versione standard da bene-educati è che da lato vi sia un mondo di bufale indifferenti alla verità, secondo l’orrendo neologismo di post-verità sancito da Oxford, mentre dall’altra ci sia il mondo dell’onesto fact checking, il controllo dei fatti, che trova corrispondenze positive tra asserzioni e fatti. Da un lato abbiamo quelli che inventano notizie che rimbalzano di account in account e rinfocolano le tribù social alle quali apparteniamo, tendendo a riversarsi anche sui partecipanti distratti. Dall’altra, la gente “perbene”, educata da anni di pensiero critico e scettico che si rivolge a fonti attendibili e a ragionamenti solidi che dovrebbero riportare le parole ai fatti dandoci la garanzia della verità.

  
La situazione però è un po’ più complicata e il dialogo virtuale del mio amico giornalista lo dimostra. I due gruppi hanno in realtà le stesse debolezze e per questo non si intendono. Le fonti credibili sono in discussione da molto tempo: per gli uni il blog di chi la pensa in modo simile è altrettanto credibile del celebre giornale, che hanno smesso di comprare. Rinuncia al pensiero critico? Certo, ma è una rinuncia che deriva da anni di imprecisione nelle notizie – la Cnn dopo il recente referendum ci diceva che l’Italia era sotto la minaccia imminente di una rivoluzione populista – di faziosità occulta (si pensi alle previsioni di tonfo dei mercati in seguito alle scelte politiche di Brexit, Trump, No al referendum italiano), di politicizzazione delle cariche, di insegnamenti ideologici. Le fonti una volta credibili sono diventate a loro volta delle tribù, lette e ascoltate da chi è già convinto. Così gli uni e gli altri si accusano di essere menzogneri e nessuno ne è immune. Quando il giornale celebre pubblica la fake news lo scambio dei ruoli diventa evidente e inquietante.

 
In secondo luogo, il paradigma della ragione dei due gruppi ha spesso una radice simile. Quello che dice “dimostramelo!” ha imparato l’uso della ragione critica dai suoi attuali avversari. La ragione viene spesso illustrata come una capacità dimostrativa per essere fedeli alla quale si può ammettere solo ciò che si può dimostrare. Il complottismo – come riporta una famosa gag del programma radiofonico “Caterpillar” – nasce dalla creazione di una catena di nessi. Solo che un buon ragionamento “non dovrebbe essere una catena la cui forza è pari a quella del suo anello più debole, ma una fune le cui fibre possono essere anche molto sottili se sono sufficientemente numerose e saldamente intrecciate fra loro” (Peirce). E’ buona regola infatti affidarsi più alla molteplicità degli argomenti che alla definitività di uno di essi. Ci sono realtà che richiedono diversi tipi di argomento e alcune realtà non sono dimostrabili per via deduttiva o induttiva, come sanno tutti quelli che hanno provato a rispondere all’assurda sfida del “dimostrami che mi vuoi bene!”.

 
Infine, i due gruppi condividono un’idea meccanica della verità. Per gli uni si tratta della corrispondenza meccanica a fatti che, soprattutto in politica, non sono mai scevri da interpretazione e passione. Affermazioni quali “C’è un’invasione di immigrati” o “gli immigrati sono la nostra opportunità di salvezza” non sono verificabili da una concezione positivista della realtà. D’altro canto, dire che “se non l’ha detto, certamente lo pensa” fa parte di una versione della verità come pura interpretazione che magicamente dovrebbe costruire la realtà che vogliamo. Il positivismo senza visione dei primi corrisponde all’ermeneutica senza base dei secondi. I primi insultano i secondi dicendo che siamo nell’epoca della post-verità, mentre i secondi insultano i primi dicendo che la loro verità è politicamente corretta e corrotta. In effetti lo statuto della verità torna a essere discusso in questi giorni su tanti giornali del mondo proprio perché entra oggi prepotentemente nelle nostre vite, tra mille alterchi via social. E’ una discussione dai risvolti sorprendentemente pratici che non deve dimenticare che la verità è un’affascinante vicenda di fatti e interpretazioni. Ci sono diversi modi di comprenderla, e speriamo di poterli illustrare su queste colonne, ma di certo ogni versione riduttiva sfocia nella violenza.

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