The People v. O.J. Simpson. Il processo di allora e l'America di oggi

Massimiliano Trovato

Allora a giudizio c’era non tanto un patetico e probabile omicida, quanto piuttosto un intero paese, ancora incapace di curarsi le cicatrici della segregazione. Nulla è cambiato dai tempi in cui un acerbo procuratore distrettuale di colore poteva essere fermato e perquisito per l’affronto di guidare un’auto costosa in un quartiere bianco.

In principio, fu Rodney King. È il 1991: un tassista afroamericano, raggiunto dopo un lungo inseguimento, viene barbaramente aggredito da quattro poliziotti; un videoamatore assiste al pestaggio, ma la giuria grazia i responsabili – e Los Angeles va a fuoco. Sono anni in cui un giovane nero in America ha maggiori probabilità di trovarsi in galera o in libertà vigilata piuttosto che nelle aule universitarie. Nulla è cambiato dai tempi in cui un acerbo procuratore distrettuale di colore poteva essere fermato e perquisito per l’affronto di guidare un’auto costosa in un quartiere bianco.

 

Sono questi due tuffi ritornati – uno nella cronaca, uno nel romanzo – a darci la chiave per penetrare la vicenda del processo a O.J. Simpson e del suo vero protagonista, l’avvocato Johnnie Cochran. Cresciuto nel mito di Thurgood Marshall – l’uomo di Brown v. Board of Education e il primo afroamericano nominato alla Corte Suprema – e incarnato da un fiammante Courtney Vance, Cochran si barcamena tra clienti prestigiosi (Michael Jackson su tutti) e clienti derelitti, tra il ruolo del leguleio e quello del predicatore. Il tutto con la vocazione di riequilibrare, attraverso il diritto, la bilancia del confronto razziale.

   

     

L’incontro con il processo del secolo è scritto: a giudizio c’è non tanto un patetico e probabile omicida, quanto piuttosto un intero paese, ancora incapace di curarsi le cicatrici della segregazione. The Juice non è persuaso: “Io non sono un nero, io sono O.J.” – o, per dirla con Gullit, “se sei miliardario e giochi nel Milan, sei un po’ meno negro”. La prima telefonata è a Robert Shapiro, mastro patteggiatore (bianco). È lui a usare inizialmente la carta della razza, facendo leva sui precedenti infelici della polizia di Los Angeles. Ma può essere un viso pallido a condurre la battaglia? Ecco il colpo di stato della difesa, ecco Cochran al volante.

 

L’accusa accetta lo scontro: Marcia Clark (bianca) arruola Chris Darden, già pupillo (nero) di Cochran: dovrebbe attirarsi il consenso del pubblico di colore; diviene, invece, l’icona del tradimento del proprio sangue. La sua nemesi non è l’antico maestro, bensì Robert Kardashian, amico (bianco) di Simpson, fedele all’uomo – fino alla sentenza – proprio perché indifferente alla causa. E la giuria? Nove neri, di cui sette donne. Non perdoneranno a O.J. d’aver sposato una bianca, teme Cochran; simpatizzeranno con la vittima, spera la Clark. Hanno torto entrambi: il richiamo identitario è più forte. Il processo, insomma, è una partita a scacchi, in cui il bianco schiera solo pedoni.

  

A Cochran basta sollecitare l’orgoglio dei giurati di fronte alla condiscendenza dell’accusa, pungolarne i pregiudizi con i profili tutt’altro che immacolati degli artefici delle indagini. Di uno, veniamo a sapere che – anziché catalogare immediatamente le scarpe sequestrate a O.J. – se l’è portate a casa per la notte: a Simi Valley, dove vivono i picchiatori di Rodney King. Di un altro, il famigerato Mark Fuhrman, possiamo ammirare i radicati sentimenti razzisti, eloquentemente esposti in dieci comode musicassette – gli sceneggiatori si concedono la licenza di parcheggiarlo davanti a una vetrinetta di cimeli svasticati. Le registrazioni non verranno mai interamente riprodotte in aula, ma sarà impossibile scacciarne l’odore.

  

L’incidente del guanto – la prova regina che non accomoda la mano dell’imputato: “If it doesn’t fit, you must acquit” – è la nota di folclore che cementa un finale inevitabile. O.J. è la faccia improbabile della riscossa dell’America nera e vessata, quella del giurato che saluta il verdetto con il pugno chiuso e dei giovani che si riversano per le strade per festeggiare l’assoluzione come la conquista di un Superbowl.

 

Ma si tratta veramente di una vittoria? È giustizia quella in cui un accusato si misura non col metro del più o meno ragionevole dubbio, bensì con quello della propria stazza simbolica?

 

La politicizzazione dei processi può assumere forme molteplici, siano toghe rosse o giurati neri. Un filone considerevole della dottrina liberale vede nell’istituto della giuria popolare un limite all’esercizio arbitrario del potere di punire. Secondo il grande individualista americano Lysander Spooner, addirittura, il compito primario di una giuria non risiederebbe nell’accertamento dei fatti controversi, ma nel vaglio della legge applicabile. La teoria fila, ma la pratica sconta tutti i limiti delle nostre comunità politiche. Se non siamo capaci di costruire società tolleranti e cosmopolite, la saggezza delle giurie è destinata a rimanere un feticcio illuministico esattamente quanto l’imparzialità del giudice.

 

Sono passati oltre vent’anni dall’assoluzione di Simpson: il campione è finito comunque in galera, mentre i neri continuano a cadere come mosche sotto i colpi della polizia. Cochran voleva fare di O.J. un Gesù di colore: non si è accorto che stava scegliendo, più modestamente, Barabba.

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