Lo scrittore francese Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal

Gli italiani di Stendhal, un popolo di antichi giganti divenuti pigmei

Alfonso Berardinelli
C’è stato chi amava gli italiani come erano un tempo: cioè un altro popolo, gli italiani dei due o tre secoli d’oro, diciamo da Dante a Michelangelo, io direi da san Francesco a Caravaggio. Questo francese grande amante dell’Italia, che si sentì milanese e che scrisse “La certosa di Parma”, è Stendhal.

Ho sempre pensato e poi dimenticato, perché ormai è inutile pensarci, che noi italiani non siamo adatti allo stato nazionale. Non ci troviamo bene, non sappiamo prendere le misure di un’entità così vasta e generica. Lo stato nazionale ci è estraneo, non lo capiamo e non lo amiamo. E quando abbiamo immaginato di volerlo e di amarlo, avevamo in testa qualcosa di diverso: un’immaginazione, un’idea, una fissazione nata da qualche umiliazione subita, o infine un desiderio sbagliato di “essere come gli altri”: soprattutto nell’Ottocento e nel Novecento, di essere come la Francia, magari maledicendo l’Inghilterra che invece per noi ha sempre avuto una certa simpatia. Forse perché, come dice Leopardi, i britannici sono i meridionali del nord, mentre i francesi sono i settentrionali del sud. Eppure anche tra i francesi c’è stato qualcuno a cui piacevamo molto. O meglio (e questo è più banale) c’è stato chi amava gli italiani come erano un tempo: cioè un altro popolo, gli italiani dei due o tre secoli d’oro, diciamo da Dante a Michelangelo, io direi da san Francesco a Caravaggio. Questo francese grande amante dell’Italia, che si sentì milanese e che scrisse “La certosa di Parma”, è Stendhal. Il suo amore molto particolare e con sorprendenti elementi di attualità lo espresse, tra l’altro, in una serie di appunti raccolti in “L’Italia nel 1818”, ora riproposti dall’editore Aragno a cura di Vito Sorbello (193 pp., 12 euro).

 

Dopo aver pubblicato “Roma, Napoli e Firenze nel 1817” e aver letto sull’Edinburgh Review (rivista da lui apprezzatissima) un articolo stroncatorio in cui lo si accusava di “frivolezza”, Stendhal decise di scrivere una seconda edizione del libro per farsi capire meglio. Si mise così seriamente al lavoro da sprofondarsi nella lettura della “Storia delle repubbliche italiane del Medioevo” dello svizzero antinapoleonico Sismondi, da lui stesso definito illeggibile”. Insomma, Stendhal aveva deciso di sembrare meno frivolo studiando meglio la storia. Ma proprio l’illeggibile Sismondi gli dava le prove di ciò che gli italiani avevano dato all’Europa: il massimo di inventività estetica unito a un culto per l’energia sociale e politica che infrangeva ogni regola. Il 22 maggio 1818, passando per Rho, Stendhal scrive nel suo diario: “Oggi è domenica. Sono sorpreso ed entusiasmato dalla incantevole e superba chiesa di Pellegrino che appare ad un tratto a sinistra della strada. Quale misero gregge si raduna in questo tempio augusto! Non sono persone come queste che hanno potuto edificare questa chiesa. Questa considerazione applicatela a tutto ciò che di sublime vedete in Italia, e in tutte le attività pubbliche. Un popolo di giganti e di eroi è morto nel 1530 ed è stato rimpiazzato da un popolo di pigmei. La grandezza si è rifuggiata dentro gli appartamenti, dove l’occhio ammazzatutto del governo non può penetrare”.

 

Eravamo grandi e siamo diventati piccoli. Il tema della decadenza italiana è stato un’ossessione sia dei nostri illuministi che dei patrioti dell’Ottocento. Ma era anche l’idea che si era imposta da tempo a tutti i viaggiatori europei. Ecco l’Italia: un grandioso scenario architettonico abitato da un misero “volgo” reso servile e furbesco da secoli di dominazioni straniere. Stendhal non fa eccezione. Ma il suo culto rivoluzionario e napoleonico dell’energia civile e politica arriva al punto da fargli dire che la libertà inventata e vissuta dagli italiani all’interno delle loro piccole società repubblicane e municipali era una libertà senza ideologia della libertà, senza limiti né regole morali. Non la moderna libertà degli inglesi, degli americani e dei francesi fondata sulle costituzioni, ma una libertà senza filosofie del diritto: “La libertà dell’Italia del XIV secolo è di molto anteriore rispetto alle teorie (…) Nel 1819, l’Europa chiama LIBERTA’ la protezione del riposo, della felicità, dell’indipendenza domestica. La libertà dei greci, dei romani, l’antica libertà degli svizzeri, degli italiani non fu che la partecipazione alla sovranità del paese. Non si poteva essere felici che al Foro, noi invece vogliamo essere felici dentro la nostra casa. Gli antichi non conobbero i diritti dell’uomo. La libertà fu per loro un’eredità come la ricchezza”. Qui Stendhal come storico forse non è sempre attendibile. Ma non precipitiamoci a liquidarlo come un tipico romantico con il mito di un passato fondato sulla virtus, sulla capacità, sull’energia vitale e geniale, sulle passioni che creano i tiranni ma armano anche la mano di coloro che li assassinano: “I costumi si ingentilirono dopo la caduta di Firenze nel 1530; il coltello cadde dalle mani, comparve la schiavitù, e in seguito le sue fide compagne: l’abiezione e l’ottusità. Ci sarebbe da fare un bel libro: l’elogio dell’assassinio (…) L’Italia fu avvilita dal 1530 al 1782, vi furono tiranni abominevoli e popoli all’estremo della viltà  per la carenza di omicidi”.

 

Dato che la parola “omicidio” ci fa giustamente impressione e ci ripugna, dovremo tradurla, per seguire Stendhal, in termini diversi. Chi governa tirannicamente e senza vergogna ai danni del popolo, sarebbe bene che temesse non solo i giudici e i processi, ma soprattutto l’ira del popolo.

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