Per la Ricerca italiana serve un po' di "distruzione creatrice", non la retorica piagnona

Lorenzo Castellani
Per opportunità o necessità a seconda dei casi, il nostro paese ha sempre preferito non occuparsi della riforma universitaria. Ora però serve una riforma ‘disruptive’ che managerializzi l’università pubblica italiana

Sui ricercatori universitari siamo di fronte al solito piagnisteo ben articolato. Da un lato, la goffa glorificazione della “ricerca italiana” come metro di misura dell’orgoglio nazionale da parte del ministro Giannini. Dall’altro, gli alfieri della persino peggiore retorica sulla fuga dei cervelli all’estero quale sintomo della catastrofe nazionale. Questi si dividono a loro volta in due categorie. Quelli che “servono risorse dello stato” e si deve tutelare il sempreverde “diritto allo studio”. Sono costoro il sintomo dell’intimo rifiuto del mercato globale universitario, che è già una realtà diffusa da almeno vent’anni, e vorrebbero che lo stato costruisse un recinto intorno ai più brillanti studiosi italiani. E poi ci sono quelli che “chi va all’estero e non torna tradisce la patria”, perché se il tuo merito viene premiato altrove, magari con più soldi e prestigio, allora si consuma un vilipendio alla cultura italica, senza riflettere su come, invece, dovremmo imparare dagli altri paesi ad attrarre ricercatori e docenti stranieri.

 

Sulle cause delle fughe, dei successi e dei mancati ritorni c’è poco da girarci intorno: la riforma profonda e la modernizzazione del sistema universitario, l’internazionalizzazione, la liberalizzazione delle rette universitarie, i rapporti con il mondo dell’impresa, i finanziamenti dei privati e un sistema di borsa di studio e prestiti non sono mai stati una priorità di nessun governo. E nemmeno del governo Renzi, che ha preferito concentrarsi sulla stabilizzazione dei precari nella scuola primaria e secondaria, ritoccare la governance scolastica e trascurare quasi interamente l’ambito universitario e della Ricerca. Eppure, su quest’ultimo fronte ci sarebbe molto da fare: i nostri atenei, salvo pochi istituti privati, non rientrano mai nelle prime posizioni nelle classifiche sulla qualità dell’istruzione accademica, il tasso d’internazionalizzazione dei docenti universitari è ridicolo, gli investimenti in percentuale al pil sono tra i più bassi d’Europa. Aumentare di qualche miliardo la spesa per l’istruzione universitaria e la ricerca avrebbe senso se questa fosse scambiata con una riforma complessiva che introduca maggior concorrenza tra atenei, apra le porte alle partnership con i privati, incentivi gli istituti di credito a finanziare i prestiti d’onore, chiuda sedi, corsi e atenei con performance di scarso livello e sovrapposizione geografica, introduca standard e valutazioni della ricerca accademica e del servizio d’istruzione fornito dai docenti. Certo, si può sempre obiettare che non esistono criteri universali per valutare ricerche e atenei sia dal punto di vista qualitativo sia da quello quantitativo, ed è qui che s’inserisce la decisione politica: va scelto un metodo di valutazione e a questo l’accademia deve adeguarsi come in ogni altro paese sviluppato. I criteri si possono discutere, sentire tutti gli utenti, ma poi vanno fissati standards sulla base delle migliori università del paese al quale gli altri atenei siano costretti ad adeguarsi, pena la riduzione dei fondi e l’accorpamento con altre realtà.

 

[**Video_box_2**]Senza una riforma ‘disruptive’ che managerializzi l’università pubblica italiana non solo la fuga dei ricercatori sarà inevitabile, ma anche il semplice master all’estero restano un’ordinaria necessità e opportunità. Questo perché le ricerche non hanno patria e senza tanti drammi  – e senza tradire nessuno – chi può cerca di realizzare al meglio la propria professione all’estero perché il mondo è veloce e globale. Dal 1968, e ancor più dopo la fine della spesa pubblica incontrollata, la politica italiana, spalleggiata da gran parte del mondo accademico e culturale, ha fatto una scelta politica precisa: fregarsene della ricerca scientifica di qualsiasi tipo essa sia. Lo ha fatto, per giunta, senza rompere la posizione dominante del ‘pubblico’ nell’offerta universitaria. L’Italia, per opportunità o necessità a seconda dei casi, ha preferito non occuparsi della riforma universitaria oppure indirizzare la propria politica economica per pagare le baby pensioni, assumere precari della Pubblica amministrazione, promettere il ponte sullo Stretto di Messina, distribuire buoni da 500 euro a docenti e neo-diciottenni. Questi sono i fatti a cui la popolazione dei ricercatori si adegua. Tutto il resto è retorica falsa e rivendicazione ipocrita di risultati italiani.

Di più su questi argomenti: