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Perché la colpa del precariato nelle università... è dei precari

Luca Gili

I ricercatori che rimangono in Italia e che si adeguano a contratti da fame non “cambiano le cose”, ma contribuiscono a lasciarle come sono

Repubblica ha ospitato la bella lettera di Massimo Piermattei, 39 anni, già ricercatore in storia a Viterbo, che ora ha abbandonato l’accademia per vendere ricambi d’auto. Lettere di questo tipo sono ormai divenute un genere letterario, ma quella di Piermattei merita ovviamente il rispetto che si deve alle scelte di ciascuno e si distingue per l’asciuttezza e lo stile molto coinvolgente. Non a caso Repubblica gli ha donato un’intera pagina del giornale. Ma pur senza giudicare le scelte personali dell’autore, spiace rilevare che Piermattei sbaglia a lamentarsi della sua condizione di “rigettato” dall’università italiana. Sia detto sine ira et studio: i primi responsabili delle situazioni tremende in cui versa l’università italiana sono proprio i precari che essa sfrutta. La tesi potrà sembrare bizzarra, ma è corroborata dalla letteratura scientifica e dalla logica. Non è quindi la solita “retorica imbarazzante” di chi, come il sottoscritto, è emigrato verso altri lidi.

   

Contro questa “retorica” esterofila, Piermattei osserva a malincuore che “non c’è spazio per l’ipotesi che tu sia rimasto [in Italia] perché non potevi espatriare o per provare a cambiare le cose”. Il problema sta proprio qui: i ricercatori che “rimangono” e che accettano contratti da fame non “cambiano le cose”, ma contribuiscono, ahimè, a lasciarle come sono. E la ragione è semplice: benché siano un carrozzone pubblico, le università devono in qualche modo sottostare alla legge della domanda e dell’offerta. Esse cercano sul mercato insegnanti (e bidelli, tecnici, segretari, ecc.). Se trovano chi accetta di insegnare un corso di “60 ore” per “1500 euro lordi” (il caso di Piermattei), non ne offriranno 6000. Ma se nessuno accettasse queste paghe ingiuriose, le università, che devono pur presentare corsi ai loro studenti, sarebbero costrette a proporre salari meno esigui per attrarre insegnanti.

   

“Sì, ma come convincere tutti i ricercatori a non accettare paghe da fame?” In un mondo normale, i sindacati dovrebbero servire a questo. “E se le università non si piegano, di che dovrò vivere?” Allora è ovvio che occorre cercare un impiego altrove, proprio per permettere ad altri di avere un impiego dignitoso in futuro – insomma, per “salvare il sistema” bisogna appunto emigrare o vendere ricambi d’auto. Può parere un paradosso, ma è indubbio che i precari che accettano di essere sfruttati sono “complici del sistema”. E Piermattei deve saperlo, almeno inconsciamente, se dedica alcuni paragrafi della sua lettera a provare ad argomentare il contrario.

  

La letteratura scientifica supporta la tesi di buon senso che ho appena esposto. In un articolo pubblicato nel 2016 nel Journal of Business Ethics (“Estimating the Cost of Adjunct Justice: A Case Study in University Business Ethics”), Jason Brennan (Gergetown University) e Philipp Magness (George Mason University) sostengono che se si offrissero paghe dignitose ai tanti precari delle università americane, i costi dell’educazione superiore sarebbero così esorbitanti che le università dovrebbero ulteriormente aumentare le loro rette già esose. Con l’ovvia conseguenza che i più poveri fra gli studenti non avrebbero accesso ad alcuna educazione superiore. La “giustizia sociale” per pochi precari si tradurrebbe in un danno morale per molti studenti. E lo stesso accadrebbe evidentemente anche in Italia.

  

In un altro articolo, in stampa presso la stessa rivista (“Are Adjuncts Exploited? Some Grounds for Skepticism”), gli stessi autori osservano che numerosi fatti sembrano indurre a rivedere la tesi secondo cui gli “adjunts”, ossia i precari dell’università americana, sono sfruttati. A differenza infatti dei lavoratori manuali in società in cui non è possibile cambiare lavoro, i precari hanno l’opzione di andarsene. I loro compensi orari sono senz’altro buoni. Lo stesso argomento è valido anche per i precari della ricerca italiana. Se le loro condizioni sono tanto pessime, perché non abbandonano l’università, magari per andarsene all’estero o per vendere ricambi d’auto? Nessuno li costringe alle umiliazioni di cui dà conto Piermattei nella sua bella lettera. Accanto alla simpatia per i tanti Piermattei, occorre anche dire – innanzi tutto nel loro interesse – la verità.

  

Luca Gili - Università del Québec (Montreal)