Meno burocrazia e "familismo amorale", spunti per una riforma dell'Università

Davide Faraone
Ci scrive il sottosegretario del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Davide Faraone in risposta allo sfogo di Roberta D’Alessandro, professoressa ordinaria italiana a Leiden (Olanda) nel quale polemizzava con il ministro Giannini sulla necessità per molti ricercatori di andare a lavorare all'estero.

Ho letto con attenzione le riflessioni indotte dallo sfogo di Roberta D’Alessandro, professoressa ordinaria italiana a Leiden. Come uomo di governo che ha il compito di agire sull'Università italiana con l'intenzione di migliorarla, ma anche come cittadino, il dibattito che ne è scaturito non poteva lasciarmi indifferente. 

 

La vicenda la conoscerete in tanti, prende le mosse dal risultato eccellente di trenta ricercatori italiani che hanno ottenuto i prestigiosissimi starting grant dell'ERC. L'Italia si piazza al terzo posto, pari merito con la Francia, in Europa. Segno evidente che i sistemi di formazione italiana sono di altissimo livello, che i nostri laureati e i nostri PhD sono in grado di competere ai massimi livelli in tutto il mondo.  

 

Dei trenta ricercatori però, tredici hanno deciso di portare avanti la propria attività in Italia, gli altri diciassette, come la professoressa D’Alessandro, porteranno avanti la ricerca all'estero, dove lavorano da tempo. Questo può significare due cose: chi ha scelto la strada del contesto internazionale ha ritenuto che altrove ci siano condizioni migliori per svolgere la propria ricerca oppure il sistema universitario italiano li ha “espulsi”, non ha dato loro spazio. Qualunque sia la risposta, abbiamo il dovere di porre a noi stessi delle domande.

 

Innanzitutto mi prendo le mie responsabilità, come esponente del governo, e dico che dobbiamo impegnarci a rifondere risorse per l'intero sistema universitario italiano, non solo per la ricerca, cosa che chiedono tutti, ma anche, mi permetto di aggiungere, per investire in impegno e innovazione della didattica e per un diritto allo studio adeguato. Tornando alla ricerca, è necessario rendere più facile la vita ai nostri ricercatori, eliminare gli eccessi di burocrazia che distolgono l'attenzione dal funzionamento dei propri laboratori per occuparsi di moduli e rendiconti. Su questo si sta già lavorando e si continuerà a farlo con decisione e rapidità. 

 

Ci si deve anche porre qualche domanda sui metodi di reclutamento, però. Il percorso accademico è troppo lungo e va rivisto: dottorato, assegno di ricerca, periodo di ricercatore di tipo A e di tipo B,.. e poi, se va bene, si arriva a un contratto da associato. Un cammino che sfianca e porta stabilità ai nostri ricercatori solo in età "matura", perché a 35/40 anni non si è giovani, si è maturi. Dobbiamo dunque preoccuparci di migliorare quel percorso e delle tutele ad esso connesse. 

 

Ma i mali denunciati dalla professoressa D'Alessandro vanno al di là di questi problemi e chiamano in causa meccanismi impropri di carattere cooptativo presenti ancora oggi dentro il sistema accademico. Qualcuno potrebbe dirmi che meccanismi virtuosi di cooptazione non possono e non devono essere eliminati. La ricerca, in quasi tutti gli ambiti, non si fa individualmente, ma in gruppo, è naturale, quindi, che ogni gruppo di ricerca tenda a selezionare persone che appaiano maggiormente adatte ad inserirsi all'interno del team esistente. Può allora accadere che un bravo ricercatore, che opera nello stesso campo del gruppo di ricerca esistente in un ateneo, sia preferito in un concorso ad uno bravissimo che però si occupa di argomenti del tutto diversi; può accadere e rientra nell'ambito della necessaria autonomia da riconoscere alle Università. Questo mi dicono. Ma è possibile che in alcuni casi questo meccanismo pervada di sé le selezioni? È possibile che casi di "familismo amorale" vengano talvolta mascherati dalle necessità suddette di garantire la qualità di un team o di una "scuola"? E se la differenza tra chi vince e chi viene escluso è troppo grande per essere ricompresa nell'ambito di queste comprensibili logiche di continuità delle “scuole”? Sappiamo tutti che ciò in diversi casi avviene e che in alcuni casi gli esiti dei concorsi universitari sono influenzati da forme di nepotismo, interessi esterni al mondo della ricerca, concezioni vetero-baronali dei propri settori. Sono convinto che siano situazioni minoritarie, ma rimangono scandalose, gridano vendetta e minano la reputazione che del sistema universitario hanno le famiglie, le imprese, i giovani. Non ce lo possiamo permettere e se il danno c'è, bisogna lavorare alle soluzioni.

 

Da tempo si lavora sul principio dell'autonomia responsabile: ogni ateneo è libero – nell'ambito delle leggi, delle abilitazioni nazionali e degli altri meccanismi di controllo – di selezionare i suoi ricercatori come ritiene più opportuno. Da quelle scelte deve dipendere però la responsabilità della qualità della ricerca e della didattica che quell'ateneo deve assicurare e su questo deve essere e, in qualche modo lo è, valutato. Se riceve una valutazione negativa, inevitabilmente andrà incontro a una riduzione dei finanziamenti.

 

[**Video_box_2**]Questo è un modo per spingere le università a scegliere i migliori, a non farli andare via o richiamare in Italia le tante (e i tanti) Roberta D'Alessandro, italiani ma anche stranieri, che dimostrano di essere in grado di svolgere una ricerca di eccellenza. 

 

Questo sistema però non funziona ancora adeguatamente. La spinta agli Atenei a scegliere sempre i migliori non è ancora sufficientemente forte. Allora forse è necessario spostare la responsabilità dalle Università nel loro complesso ai singoli docenti, ai direttori di dipartimento, ai commissari, ai singoli che in qualche modo danneggiano il complesso. La riduzione dei fondi colpisce un Ateneo nel complesso, non gli autori di scelte infelici, e dunque gli studenti o i giovani ricercatori di quella realtà, causando anche la riduzione delle prospettive di carriera dei più giovani o, se precari, perfino di ingresso stabile nel sistema universitario. Su questo si devono trovare subito le modalità per cui quelle scelte siano responsabilità di chi le ha prese.

 

Spero sia chiaro il motivo per cui ho messo insieme più piani: l'importanza della didattica e degli studenti, l'opinione delle famiglie, i bisogni del Paese e la denuncia della professoressa D'Alessandro. L'ho fatto perché servono riflessioni comuni organiche sul sistema universitario, con orizzonti ampi, in cui il faro sia l’Italia non i corporativismi, il futuro dei giovani, non il potere dei vecchi, quando non è sano. Perché vadano uniti, e non contrapposti. È su queste premesse granitiche e sull'onestà intellettuale di tutti quanti che possiamo allocare maggiori risorse al mondo universitario. Che, assicuro, sono tema all'ordine del giorno, perché il sistema universitario può e deve essere perno di crescita e di sviluppo e per divenire tale ha bisogno di soldi, ma anche di testa e di adeguamento ai bisogni del Paese. Un'inversione di tendenza già l'abbiamo data nella finanziaria, sebbene non rilevante quanto ci sarebbe piaciuto: mille ricercatori in più, 500 ordinari in più e aumento delle risorse per le borse di studio agli studenti previste nella finanziaria da 5 milioni a 55 milioni. Non da 5 a 10, ma da 5 a 55 milioni, in totale sono 217 milioni. E stiamo lavorando alla questione dell’innalzamento della soglia Isee, proprio ieri si è riunito il tavolo sui Lep, i livelli essenziali per il diritto allo studio proprio per stabilire criteri chiari e il più possibile equi. Non bastano, certo, lo so. Ma, ripeto, insieme alle risorse, è necessaria una riflessione organica sul sistema universitario – sui mezzi e sui fini, non solo sulle risorse – con la premessa di un'azione di verità e senza ipocrisie, da nessuna parte. Ciascuno si prenda le sue responsabilità.

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