L'Independent e non solo. Perché viviamo nell'èra biomediatica

Massimiliano Valerii
Il famoso quotidiano inglese che smette di stampare copie cartacee e andrà solo online è sintomo di un cambiamento di cui in Italia ancora non si riesce a parlare se non dividendosi tra apocalittici e integrati. Spunti dal Censis per capire come l’individualismo della rete sta cambiando l’informazione e la cultura

Il quotidiano britannico Independent ha annunciato che il suo ultimo numero su carta uscirà il prossimo 26 marzo, poi continuerà a vivere solo nella versione digitale. Le copie erano passate dalle 400mila degli anni d’oro a 40mila, mentre il sito ha 2,8 milioni di utenti unici al giorno. È il caso più recente della grande trasformazione dei media che sta modificando profondamente non solo il modo in cui ci si informa, ma anche quello in cui si trasmette la conoscenza. Sono cose troppo importanti per lasciarle a un dibattito che in Italia è polarizzato tra “apocalittici” e “integrati”. Ci sono gli apologeti di internet opposti ai detrattori del web, con i primi che enfatizzano l’intelligenza collettiva che si sviluppa grazie alla rete, contro i secondi, per i quali Google ci rendi stupidi, Facebook distrugge la nostra privacy, Twitter frantuma la capacità di attenzione e approfondimento. Con i tecno-entusiasti che elogiano la mole di contenuti che le nuove tecnologie digitali fanno circolare, considerandolo un segnale di democratizzazione della cultura, e gli scettici che invece criticano il web condannando la superficialità dei suoi contenuti e mettono in guardia dalle preoccupanti avvisaglie di una regressione culturale.

 

Ma non è certo colpa del digitale se nel nostro Paese abbiamo un tasso di laureati che, sebbene crescente nel tempo (+4,1 per cento nell’ultimo decennio), è fermo al 15,4 per cento della popolazione in età attiva (15-64 anni), cioè molto meno della media europea (26,3 per cento), la metà rispetto a Francia (30,2), Svezia (33,8), Regno Unito (36,2). Il numero di lettori di libri è cronicamente basso: solo il 42 per cento della popolazione ne ha letto almeno uno nel corso dell’ultimo anno. E non può essere di conforto il fatto che la quota di “lettori forti” (che hanno letto più di 12 libri l’anno) è pari al 13,7 per cento ed è aumentata di 2,4 punti negli ultimi vent’anni, tanto da poter parlare di una deriva elitaria nella lettura dei libri. Si registra una fisiologia davvero anomala nel fatto che in Italia i tassi di scolarizzazione (crescenti nel tempo) e la propensione alla lettura (declinante) stanno ormai seguendo traiettorie divergenti: l’esatto contrario di quanto sarebbe apparso lecito attendersi, cioè un rapporto di proporzionalità diretta tra le due grandezze. Così, la quota di non lettori (neanche un libro l’anno) resta alta anche tra i laureati (il 24,1 per cento) e corrisponde a quasi la metà dei diplomati (il 48,5).

 

Intanto gli utenti regolari di internet aumentano anno dopo anno e nel 2015 sono arrivati al 63 per cento della popolazione di 16-74 anni. Certo, con persistenti differenze geografiche: il 69 per cento al Nord-Est, il 55 al Sud. Certo, meno che negli altri paesi europei, dove si arriva a una incidenza degli utenti del web superiore al 90 per cento in Lussemburgo, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia, e ci si attesta al 90 nel Regno Unito, all’84 in Germania, all’81 in Francia. Ma è impressionante il grande balzo in avanti della spesa delle famiglie italiane per acquistare dotazioni tecnologiche. Tra il 2007 (l’anno prima dell’inizio della crisi) e il 2014, la spesa per telefoni e traffico dati è più che raddoppiata (+146 per cento), mentre nello stesso arco di tempo i consumi complessivi flettevano del 7,5 per cento e la spesa per l’acquisto dei libri crollava del 25. La quota di possessori di smartphone abilitati alle connessioni mobili è lievitata di 10 punti percentuali solo nell’ultimo anno.

 

La grande trasformazione dei media è stata una vera e propria rivoluzione copernicana. Grazie alle tecnologie digitali, l’io-utente si è ritrovato al centro del sistema, con una crescente attitudine alla personalizzazione dei palinsesti, sia con riferimento alle fonti di informazione, sia per l’accesso ai contenuti di intrattenimento. Ora il soggetto si sposta autonomamente all’interno dell’ampio e variegato sistema di strumenti mediatici disponibili per comporre i propri palinsesti personali, rintracciando i contenuti di proprio interesse secondo i tempi e i modi a lui più consoni, assecondando le sue preferenze e i suoi bisogni, facendo individualmente arbitraggio tra vecchi e nuovi media, per arrivare ad assortire una miscela di consumi mediatici a misura di se stesso.

 

Con la miniaturizzazione dei device tecnologici e la proliferazione delle connessioni mobili, e grazie al cloud computing e alla diffusione delle app per smartphone e tablet, si ampliano le funzioni delle persone, se ne potenziano le facoltà, si facilita la loro espressione e le relazioni. Siamo entrati nell’era biomediatica, caratterizzata dalla trascrizione virtuale e dalla condivisione telematica delle biografie personali attraverso i social network. Si è così inaugurata una fase nuova all’insegna del primato dello sharing sul diritto alla riservatezza: l’io è il contenuto e il disvelamento del sé digitale è la prassi. Da questo punto di vista, Facebook si inserisce a pieno titolo nella grande saga della costruzione della soggettività che caratterizza in modo essenziale la contemporaneità. L’individuo si specchia nei media (ne è il contenuto) creati dall’individuo stesso (che ne è anche il produttore): i media sono io.

 

Chi ringraziare? Ogni narrazione epica ha i suoi eroi. Non fa eccezione la straordinaria saga dello sviluppo della disintermediazione digitale: Bill Gates e Steve Jobs, i pionieri; Larry Page e Sergey Brin, studenti della Stanford University inventori dell’algoritmo di Google; Jeff Bezos e la sua fortunata creatura Amazon; il giovanissimo Mark Zuckerberg, che ha aperto la strada ai social network. La rete planetaria si attorciglia attorno ai loro nodi. All’inizio Microsoft (anno di fondazione: 1975), subito dopo Apple (1976), poi Amazon (1994) e Yahoo (1995), poi ancora Google (1997), fino all’entrata in scena clamorosa di Facebook (2004) e Twitter (2006). Tutti innovatori della Silicon Valley e della West Coast americana col soffio del genio, dallo spirito visionario e l’afflato radicale, pragmaticamente anticonformisti: tratti impersonati alla perfezione dal primo Steve Jobs. Quasi una reincarnazione, su basi del tutto nuove, della giovane generazione californiana degli anni della contestazione – i luoghi sono pressoché gli stessi, ma alla comunità ora si era sostituito l’individuo imprenditore di se stesso; al sogno della trasformazione sociale, la leva più prosaica del cambiamento tecnologico; alla forza dell’ideologia della liberazione, il potere inesplorato del digitale; agli slogan della protesta, i payoff dei brand di internet; ai manifesti degli intellettuali, le fotografie dei nuovi capiazienda sulle copertine di magazine e tabloid come fossero consumate celebrities hollywoodiane.

 

Tutto bene, quindi? Resta il fatto che non si possono ignorare le differenze intrinseche nell’uso di una tecnologia di produzione culturale (il libro, ad esempio) o di un’altra (come il web). Il mezzo di apprendimento e di diffusione del sapere impiegato non è neutrale, proprio in ragione delle sue peculiarità tecniche in grado di attivare a livello individuale determinate facoltà di tipo cognitivo o emotivo anziché altre; e anche per le sue specificità in termini di capacità tecnica di immagazzinare e trasmettere nozioni e informazioni (le pagine di un libro piuttosto che i gigabyte di memoria dell’hard disk di un computer o, ancora di più, di un server remoto), di modalità di consultazione e fruizione (la lettura su carta o la navigazione ipertestuale in internet, che può includere il godimento di materiale audiovisivo), di efficacia nel raggiungere i diversi utenti e pubblici di riferimento (è il tema dell’accessibilità del mezzo), di costi dell’impiego (sia di tempo che di denaro).

 

Ecco perché alla fine vincerà un sano ed equilibrato opportunismo: riconoscere il primato del lavoro editoriale, dei libri e dei giornali, non confligge con un positivo atteggiamento di apertura verso il mondo digitale. Vinceranno i protagonisti di un articolato arbitraggio individuale nell’uso dei diversi mezzi a disposizione in base ai propri interessi, alle esigenze da soddisfare, alle specificità intrinseche delle diverse tecnologie, vecchie e nuove.

 

 

Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis

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